StorieDiCalcio. Tributo a Marulla, l’uomo che mi insegnò le lacrime del pallone

marulla maradonaÈ morto l’uomo che mi insegnò che il calcio non è una festa continua. È morto l’uomo che, per primo, mi ha fatto piangere per una partita di pallone. A cui, proprio per questo, devo essere gratissimo. Luigi Marulla, non mi riesce proprio di chiamarlo Gigi e non è certo per risentimento ma, anzi, per il profondo rispetto per l’uomo e per i suoi tifosi tra cui io non sono mai stato, aveva cinquantadue anni. E ne aveva ventotto quando, facendo il suo dovere di bomber implacabile – con un senso del gol spaventoso (ne farà in carriera più di trecento) – si incuneò nella difesa avversaria tirando una castagna che forse solo a me sembrò un pallonetto beffardissimo e crudele. Che valse al suo amatissimo Cosenza la permanenza in B e alla mia Salernitana l’onta della retrocessione in C, nel drammatico spareggio dell’allora avveniristico (così disse Bruno Pizzul…) stadio Adriatico di Pescara.

Quel bimbo che c’aveva sei anni, nel 1991, andò incontro al destino della prima delusione sportiva. Solo un’estate prima si festeggiava alla grandissima. Erano le notti magiche e cercavo di capire perchè. Ritorno in B della Salernitana (nell’ultima stagione giocata da Agostino Di Bartolomei), il Napoli che vinse il suo secondo e ultimo scudetto e a quei tempi non c’era ancora l’irrimediabile inimicizia sportiva che fa da tempo invalicabile crinale tra Nord e Sud della Campania. Persino la Battipagliese festeggiava, la sua clamorosa promozione in serie C. Avesse vinto pure l’Italia ai mondiali di casa sarebbe stato perfetto. Ma andava bene anche la Germania, quelle magliette imbandierate erano irresistibili agli occhi di un ragazzino.

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Un anno dopo tutto crollò, il pallone girò. Ma ora mostrava il suo lato cattivo. Lo spareggio, drammatico, vide affrontarsi una squadra (quella granata) che non era capace di far altro che pareggiare e un’altra (quella calabrese) che era lontana anni luce dai fasti e che intimamente, inconfessabilmente, ancora troppo scossa era dal tragico e misterioso destino che aveva ghermito, solo qualche anno prima, il centrocampista Dennis Bergamini.  Salernitana-Cosenza all’Adriatico fu una delle partite più brutte dell’era recente. Che bloccata a reti inviolate scivolò come uno sbadiglio di prima estate ai supplementari. E come sempre accade a tutti i più tignosi zero a zero, arriva l’invenzione. Innescato da chissà chi (non l’ho mai voluto sapere, forse, per non diluire la sua responsabilità tra complicità di sorta) buca i due centrali e tira forte, in rete. Marulla gol, Cosenza salvo, la Salernitana no.

Da quel giugno spuntarono in tutte le piazze rivali, come nell’orgogliosissima Cava de’ Tirreni, delle scritte che non sono più andate via. “Grazie Marulla”. Chissà se il bomber l’ha mai saputo d’esser stato, per qualche mese, l’uomo più ringraziato non solo dalla “sua” Calabria ma pure da parti della Campania e della Puglia.

La notizia della sua scomparsa ha avuto per me il sapore delle madeilene di Marcel Proust. Con il retrogusto amaro di chi t’ha insegnato che non puoi vincere sempre tu, a pallone e nella vita. L’insegnamento del calcio – o almeno di “quel” calcio dove le bandiere sventolavano fiere anche in provincia e le maglie, che gradatamente abbandonavano il cotone per l’acetato, contavano ancora – è questo. Addio, Marulla. E grazie. Che la terra ti sia lieve.

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Giovanni Vasso

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