Il caso. I vescovi africani ai giovani: “Non emigrate, fate crescere i vostri Paesi”

africa-flag-map“L’accoglienza, la generosità è un dovere, ma va trovato un punto d’equilibrio per tutelare anche la popolazione che accoglie e soprattutto va rispettato il diritto dei Paesi a mantenere la propria identità”. A parlare, ai margini del Meeting di Comunione e Liberazione, è monsignor Silvano Tomasi, nientemeno che il nunzio apostolico della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, nonchè sacerdote scalabriniano con un percorso di missionario al servizio proprio di immigrati e rifugiati che lo rende una figura di notevole spessore proprio per quanto riguarda l’argomento in questione.

Le dichiarazioni, riportate sul sito cattolico “La Nuova Bussola Quotidiana”, non si fermano qui, e palesano un’analisi del problema immigrazione sicuramente distante da quella della parte più visibile del mondo cattolico nostrano: “il problema va affrontato alla radice  e vedere le cause per cui tutte queste persone si muovono. Probabilmente scopriremmo che anche i nostri paesi europei, ad esempio, hanno qualche responsabilità nelle condizioni di miseria e guerra dei paesi di origine: certe regole del commercio, l’appoggio a governi repressivi,  per non parlare della situazione in alcuni paesi del Medio Oriente: è un dato di fatto che dall’invasione dell’Iraq nel 2003 la situazione sia andata peggiorando”. E pochi oggi ricordano che proprio la Santa Sede, quell’invasione, cercò di fermarla con tutti i mezzi diplomatici in suo possesso.

Ovviamente, la conversazione non può non vertere anche sul problema, connesso, dei rapporti con l’Islam, e qui l’esempio che il prelato propone è quello della Slovacchia che, attirandosi strali da ogni parte, ha dichiarato di voler limitare l’accoglienza dei profughi siriani a quella dei soli cristiani: “Non è discriminazione  è il tentativo di far valere il diritto alla propria identità pur ottemperando al dovere dell’accoglienza”.

Rieccheggiano, in questa intervista, i passi dedicati all’immigrazione dell’enciclica inascoltata di Benedetto XVI Caritas in veritate, in cui, enucleando i principi basilari per una corretta gestione del fenomeno migratorio, enunciava, accanto al rispetto dei diritti dei migranti, quello del rispetto dei diritti della comunità di arrivo, cui chiaramente monsignor Tomasi si dimostra attento, e quelli delle comunità di provenienza, che rischiano di essere impoverite dalla fuga dei proprio figli.

Proprio quest’ultimo punto è da tempo in cima alle preoccupazioni degli episcopati africani che si rivolgono ai giovani dei proprio paesi in termini che poco ricordano i messaggi di “accoglienza” lanciati a quegli stessi giovani dai loro confratelli europei: “Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi”. A parlare è monsignor Nicola Djomo, presidente della Conferenza Episcopale del Congo, nel discorso di apertura dell’Incontro della Gioventù cattolica panafricana, organizzato dal Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar.

Il discorso ha raggiunto vette drammatiche: “Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i vostri paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America guardatevi dagli inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di vita, dei valori morali e spirituali. Utilizzate i vostri talenti e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione di giustizia, pace e riconciliazione durature in Africa”. Il prelato congolese ha toccato punti che spesso vengono trascurati: la natura illusoria delle aspettative che spingono le migrazioni, illusioni che la Chiesa africana si sente in dovere di smascherare, e il rischio che l’unico risultato concreto a cui si arrivi sia il gettare in pasto intere generazioni alla cultura relativista dell’Occidente, visto come una sentina di immoralità. In sottofondo, l’idea, spesso lasciata intendere dai prelati del continente nero, che migrare anziché battersi per migliorare le condizioni del proprio paese sia una scelta puramente egoistica.

Se a tutto questo si aggiungono le recenti affermazioni anche dell’italiano cardinal Bagnasco che, con cautela, ha rivelato l’adozione di una prospettiva diversa da quella espressa da monsignor Galantino, si giunge alla conclusione che, sull’immigrazione, l’analisi degli uomini di Chiesa è ben lontana da quella dell’ “accogliamoli tutti” semplicisticamente presentata all’opinione pubblica dai mezzi di comunicazione, spesso con la compiacenza di qualche prete “mediatico”.

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Paolo Maria Filipazzi

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