Cultura. Il genio creativo di Tolkien e la riscoperta di tradizione e comunità

JRR Tolkien
JRR Tolkien

“Il signore degli anelli” (“LOR”) è da alcuni anni in fase di sdoganamento da parte della intellighenzia italiana. Il discorso è totalmente diverso per quanto riguarda il pubblico dei lettori: con la saga tolkieniana sono cresciute diverse generazioni, fortunatamente noncuranti degli strali di alcuni benpensanti sul “pericoloso” tradizionalismo dell’accademico di Oxford. Buona parte del successo del “LOR” in Italia si deve a due studiosi che gli amanti del fantastico conoscono bene: Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, i quali hanno sempre mostrato il coraggio delle proprie idee, divulgando le opere di autori sovente inediti e, talvolta, persino scomodi per il panorama letterario nostrano, come, ad esempio, nel caso della loro esperienza alla direzione delle collane di fantascienza e fantasy dell’editore romano Fanucci. Di recente sono usciti due testi su J. R. R. Tolkien che riportano ancora una volta in primo piano il loro impegno nel dare il giusto peso a quella che noi soliamo definire: “cultura fantastica”.

Giampiero Rubei

La prima opera è “Ricordi di un Hobbit”, un lavoro teatrale a quattro mani di de Turris e Fusco (con la presentazione di Quirino Principe – già autore della introduzione alla prima storica edizione del “LOR” risalente al 1970 –  e la postfazione di Stefano Giuliano, Tabula Fati, Chieti, 2015, 56 pp. + 8 ill.). La storia si svolge a Hobbiville, quindici anni dopo la partenza di Frodo e Gandalf dai Grey Havens. La giovane figlia di Sam Gamgee (Elanor) pone cinque domande al padre, divenuto sindaco della città degli hobbit.
Si è accennato al fatto che si tratta di uno scritto per il teatro, il quale ha avuto la fortuna di essere messo brillantemente in scena. Accadde infatti che nella primavera del 2011 Giampiero Rubei – compianto direttore della romana Casa del Jazz, nonché fondatore del rinomato locale Alexanderplatz – chiese a de Turris e a Fusco un testo ispirato alle opere di Tolkien, da proporre con l’accompagnamento di un genere musicale solitamente considerato piuttosto distante dal mondo del fantasy: il jazz. Nacque così “Ricordi di un Hobbit”, con le note di Keith Jarrett, che venne rappresentato nel febbraio dell’anno successivo.

“Un lavoro nobile e forte” (p. 5), in tal modo il testo viene definito proprio da Quirino Principe. Noi ci permettiamo di aggiungere anche breve, ma intenso, quasi come un impetuoso sospiro dell’anima. Nella sua presentazione, sempre Principe spiega come in Tolkien vi sia essenzialmente un contrasto tra “Bello” e “Brutto”, assai più rilevante, come invece pensano molti lettori, di quello tra “Bene” e “Male”. Ciò rende allora la saga tolkieniana una opera estetica. Ragion per cui, la idea di de Turris e Fusco di trarne una pièce teatrale musicale non è solo adatta, ma va altresì ad aggiungere un qualcosa che finora né Tolkien né i suoi epigoni avevano creato.

“Ricordi di un Hobbit” segue un impianto classico, con l’utilizzo del coro, un “recupero” fatto anche dallo stesso Tolkien, con la sua coraggiosa ripresa della epica, proposta però sotto forma di romanzo e non più di poema – a dire il vero, pure questa ultima forma la si ritrova nell’autore, per mezzo delle canzoni dei vari popoli della Terra di Mezzo riportate all’interno dei romanzi – ignorata dalla letteratura occidentale da secoli, ma che Tolkien ha dimostrato essere ancora attuale. La narrazione è basata sulla ripetizione di una diade, con una struttura dialogica fatta di domande e risposte.

Comunque, l’opera in questione non è certo “solo” letteratura, e non avrebbe potuto essere diversamente, visto che i suoi autori sono dei fini conoscitori del Pensiero Tradizionale, un complesso ramo filosofico-morale che vede proprio in Tolkien un punto di riferimento. Ecco allora che nel testo troviamo due concetti che lasciano poco spazio agli equivoci: “Figli d’Occidente” e “Patria”, confermando quel desiderio di radicamento che è poi la quintessenza del “LOR”, ovvero della lotta contro un nuovo ordine imposto da Sauron, il quale mira a unificare tutte le culture di Arda, cancellandone i costumi. A nostro modesto parere, la parte migliore è l’“Intermezzo” di Gimli (p. 36), dove i due autori si avvicinano maggiormente al linguaggio del capostipite del fantasy. Ciononostante, l’intento che sta alla base di “Ricordi di un Hobbit” non è certo quello di scimmiottare lo stile dello scrittore oxoniense, bensì di rivisitarlo da un nuovo e originale punto di vista; come sostiene lo stesso Principe: “[…] la storia della grande letteratura è una sequenza di riscritture, di sequels, di completamenti” (p. 9). Il risultato è alla fine decisamente positivo, dimostrando come i veri conoscitori, e de Turris e Fusco lo sono, di Tolkien siano capaci non solo di interpretare correttamente la Saga dell’Anello, ma anche di riuscire a comunicarne i contenuti fondamentali.

Dalla narrativa passiamo ora alla saggistica. In contemporanea con la suddetta pièce, è uscito il testo “I bastioni di Gondolin” di Ninni Dimichino e Luigi Pruneti (a cura di, Bari, L’Arco e la Corte Editore, 2015, pp. 136, con i contributi critici di: Gianfranco de Turris, Manlio Triggiani, Dario Giansanti, Antonino Zarcone, Luigi Pruneti, Roberto Pinotti). Trattasi degli atti di un convegno tenutosi a Vicopisano (Pisa), il 19 aprile di quest’anno, con la collaborazione della Società Tolkieniana Italiana e dell’Ateneo Tradizionale Mediterraneo.

Tra i tanti validi contributi, ci ha piacevolmente colpito proprio uno di de Turris, dal titolo: “J. R. R. Tolkien, capostipite del fantasy” (pp. 19-26). Lo studioso romano in poche pagine riassume perfettamente tutti gli aspetti principali presenti nei romanzi del “Professore-scrittore”, come lo chiama de Turris. Una convinzione molto forte in quest’ultimo per una adeguata comprensione del fantasy tolkieniano è che: “[…] il mondo deve essere vero, ci si deve credere; deve essere autoconsistente, coerente con le sue premesse; deve essere descritto in modo simbolico” (pp. 22-23). Una contraddizione, considerato che si tratta di storie di pura immaginazione? Tutt’altro, è una visione giusta delle opere di questo autore. Difatti, Tolkien è stato spesso accusato di escapismo, di proporre cioè una fuga dalla realtà, ma de Turris smonta drasticamente questa tesi: “Neanche per sogno: bisogna, infatti, distinguere tra la ‘fuga del disertore’ dal campo di battaglia e l”evasione del prigioniero’ dalle sbarre della prigione” (p. 23). Inoltre, il celebre esperto di Tolkien ritiene che non soltanto il Professore sia stato il vero capostipite del fantasy, ma che egli abbia per giunta creato una nuova Tradizione all’interno di questo genere, tanto che ormai gli autori che si cimentano con tali storie ne sono quasi positivamente “schiavi”: “[…] dalla quale coloro che giunsero dopo non possono fare a meno” (p. 20).

È talmente vero il mondo immaginario della Terra di Mezzo, che nel raccontarlo Tolkien non perde occasione per stigmatizzare i mali della moderna società progressista, segnatamente di quella in cui è cresciuto, palesando un “disagio inglese”, al quale oppone dei valori alternativi: “[…] anti-utilitaristici, anti-materialisti, anti-macchinistici e anti-progressisti in cui egli stesso credeva” (p. 21.), che conferiscono alla sua opera un aspetto per nulla disimpegnato, come credono i poco informati. Del resto, la pluridecennale ostilità mostrata verso Tolkien da una certa parte della cultura ufficiale non avrebbe potuto nascere se non come reazione a delle idee concrete. Perciò, le sue storie non sono affatto delle semplici vicende di maghi, elfi e nani. Per converso, esse si attestano come una coraggiosa proposta per una società diversa da quella in cui viviamo.

Tirando le somme, ci sentiamo di dire che i libri qui presi in esame si integrano armoniosamente l’uno con l’altro; con “I bastioni di Gondolin” che può certamente aiutare chi vuole approfondire da un punto di vista critico l‘opus dello scrittore inglese, mentre “Ricordi di un Hobbit” permette di soffermarsi sul piacere di una letteratura che riprende quella di Tolkien, senza tuttavia copiarla, ricordandoci come: “[…] ad Occidente ancora splende il sole” (p. 28); dunque incoraggiandoci ad avere fiducia nella nostra cultura, oggi drammaticamente in crisi, la quale solo con il radicamento in certi valori tradizionali può sperare di affrontare in modo vincente una modernità autoritaria.
Non per niente, nella pièce si ricorda che col “LOR”: “Si chiude la Terza Era, declinano gli dèi e gli eroi, e sorge l’uomo, solo con la nuda spada nel suo pugno” (p. 16. ), e lo si fa con una drammaturgia poetica che: “ci richiama a un dovere” (p. 7). Il problema è che l’homo oeconomicus che caratterizza le nostre società ha ben poco chiaro quale sia questo “dovere”. Per tale motivo, le opere di Tolkien sono preziose per ritrovare idee che abbiamo volutamente smarrito, e i due testi di cui si è parlato fungono da utili mediatori per illustrare le problematiche evidenziate dal professore di Oxford nei suoi scritti. Sarebbe a dire, il rendersi conto di cosa siamo diventati a causa di un progresso prevaricatore e cosa forse dovremmo tornare a essere al fine di ristabilire un equilibro tra l’Uomo e il mondo in cui vive.

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Riccardo Rosati

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