Storie d’Italia. Lea Garofalo, la donna che sfidò la ‘ndrangheta (e fu lasciata sola)

LeaGarofaloLea Garofalo era una madre con il desiderio di proteggere sua figlia.  Il 24 novembre 2009  a soli 37 anni è stata sequestrata, interrogata e  torturata.  Per finire il lavoro le hanno sparato un colpo in testa , hanno bruciato il suo corpo in un bidone fino a farlo divenire cenere e lo hanno sepolto sottoterra con l’intento di far sparire per sempre il suo nome dalla storia.

Che cosa aveva mai fatto Lea per meritarsi tutto questo? La Garofalo era una testimone di giustizia,  aveva deciso di denunciare il suo compagno e la sua famiglia  appartenenti alle ‘ndrine calabresi. Ha voluto affidare la sua vita e quella di sua figlia Denise allo Stato. Era una testimone e non una collaboratrice. C’è una differenza enorme tra le due figure. I collaboratori hanno fatto parte di associazioni criminali, hanno commesso reati gravi, si sono resi responsabili di crimini, sono stati affiliati nella maggior parte dei casi a cosche mafiose e “contrattano” la loro collaborazione con lo Stato in privilegi di detenzione e sconti di pena. I testimoni di giustizia invece, hanno avuto solo la sfortuna di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, di aver visto o sentito qualcosa che doveva rimanere nascosto.  E hanno avuto il coraggio di denunciare, hanno rifiutato la vergogna morale dell’omertà, hanno deciso di parlare.

Lea aveva coraggio da vendere. Così nel 1996 decide di farla finita, non ce la fa più a vivere nel mondo delle ‘ndrine, e fa una cosa impensabile per chi è cresciuto con la mentalità mafiosa. Decide di lasciare il suo compagno Carlo Cosco che nel frattempo era stato arrestato. Nel 2002 si spinge oltre, salta il fossato, vuole finalmente vivere libera: e prende questa decisione soprattutto per sua figlia Denise. Svela agli inquirenti tutto quello che sapeva di omicidi ed estorsioni. Lea pensava ad un futuro con una nuova identità, in un altro posto, dove poter iniziare una nuova vita. Ed invece iniziò per lei un vero e proprio calvario. Ammessa già nel 2002 nel programma di protezione insieme alla figlia e trasferita a Campobasso, se lo vede revocare nel 2006 perché l’apporto dato non era stato significativo. Tra ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato nel dicembre del 2007 viene riammessa al programma, ma nell’aprile del 2009 decide all’improvviso di rinunciare volontariamente a ogni tutela e torna a casa. L’ex compagno era venuto a conoscenza della sua nuova identità, ormai era inutile scappare ancora.

Il 5 maggio 2009 Cosco tenta di consumare la sua vendetta. Invia a casa di Lea un finto idraulico. Il suo compito era quello di rapire ed uccidere la Garofalo. L’intento era quello di scongiurare la sua presenza al processo di Firenze dove Lea avrebbe potuto rivelare altri particolari sulla faida fra le famiglie Garofalo e Mirabelli di Petilia Policastro. Denise avverte la madre e Lea riesce così a farla franca. Fino al 24 Novembre. Cosco attira l’ex compagna in via Montello 6 a Milano , con l’intento di parlare del futuro della loro figlia, ma è una trappola mortale. Aveva già organizzato tutto quattro giorni prima. All’appuntamento si presentano due sicari che rapiscono la donna in strada e la portano in un magazzino dove ad attenderla ci sono proprio Cosco e suo fratello. La torturano per ore per farla parlare e poi la uccidono con un colpo di pistola. Il corpo viene portato in un terreno nel Comune di San Fruttuoso (Monza) dove viene bruciato all’interno di un bidone metallico e poi sepolto.

Lea era consapevole dei pericoli che stava correndo. Le sue ultime parole di disperazione, indirizzate al Capo dello Stato e con le quali si definiva “giovane madre allo stremo delle forze”, sono state rese pubbliche solo dopo il suo assassinio. Lea Garofalo è ricordata ogni anno il 21 marzo nella Giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera, la rete di associazioni contro le mafie, che in questa data legge il lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi.

La sua vicenda porta alla ribalta la situazione di pericolo che i testimoni di giustizia devono vivere tutti i giorni. Sono per la maggior parte storie tristi, di solitudine. I testimoni di giustizia in Italia sono solo 78 , ma più della metà di loro grazie alla spending review da due anni a questa parte non ha più la protezione e le garanzie che lo Stato gli aveva promesso prima che iniziassero i processi. Lo stesso Viminale  ha ammesso che “la drastica riduzione delle risorse ha messo a dura prova il sistema”. La carenza di finanziamenti impedisce, ad esempio, la capitalizzazione (contributo economico straordinario per favorire il reinserimento socio-lavorativo) importante strumento di fuoriuscita dal programma. Ciò, sottolinea il Viminale, comporta la permanenza nel programma di protezione anche di chi non possiede più i requisiti e resta parcheggiato nel sistema.  I testimoni di giustizia, in un certo senso, hanno perso la loro vita, e se lo Stato non è in grado  più di garantire ciò che promette, chi avrà ancora il coraggio  di denunciare?

Fabio Sciarpelletti

Fabio Sciarpelletti su Barbadillo.it

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