Cultura. Due sguardi sul Giappone tra Daido Moriyama e Akira Kurosawa

Metropolitano, distante e contemporaneo è il Giappone di Daido Moriyama. Fotografo errante, cattura istanti che raccontano un mondo sospeso nel bianco e nero dell’esistenza. Un Joyce della fotografia, si esprime attraverso scatti che riecheggiano il fluire ininterrotto della coscienza. Immortala inquietudine, deifica fugacità di creature immerse in una cornice lontana. Le immagini dell’artista giapponese sono in quel bianco e nero sgranato, riconoscimenti di un mondo spigoloso e scomodo. Il suo universo nipponico è oltre il contemporaneo, in una dimensione appena fuori dal presente, sospesa nel futuro e senza ombra di passato. Nell’assenza di storia vi sono tutte le trasformazioni di un oggi in bilico e isolato, privo di radici e conforto.

Il bianco e nero racconta il mio mondo interiore, le emozioni e i sentimenti più profondi che provo ogni giorno camminando per le strade di Tokyo o di altre città, come un vagabondo senza meta.

Uno scatto del 1971, “Stray Dog”, oltre a essere uno tra i più noti, figura come lo stesso animo randagio dell’artista, una rappresentazione della creatura senza passato, emblema della solitudine raminga, sentinella di strade senza vie. Tutto in quel suo nome – Hiromichi Moriyama – formato da due ideogrammi: hiro/ampio e michi/strada. Un percorso solitario, teatro dell’opera fotografica, condizione che porta Moriyama al vagare notturno, rintracciabile in quelle immagini sovraesposte, sporche e sovente dalla cornice indistinta. Sono visioni tra il sonno e la veglia, profonde, a tratti erotiche e fugaci. È un cantore dell’imperfezione, di quel magnetismo sbafato che disorienta lo sguardo e lo rende estraneo a qualsiasi posto.

Sola o solitaria, di spalle alla vita o all’obiettivo, dentro o fuori dall’arte, è l’immagine della donna in Moriyama. Un essere evanescente, appartenente alla sfera del forse: tra il bianco e il nero, si posiziona nella sbavatura del grigio. E’ in “On the bed I, Tokyo, 1969”, “Nippontheater, 1968”, “Shinjuku, 2002”, “Scandalous, 1970”, in tutti quegli scatti messi insieme, dove a emerge è un’impressione gravida, ma polverosa. Esiste nelle sue creature qualcosa di sfuggente, l’incapacità di non riuscire a trattenere nulla in una futuristica modernità dove tutto brucia. È l’assenza di un orizzonte per lo sguardo, una mancanza che fa della vita, frammenti di esistenza senza alcuna continuità.

Lontano, sino al periodo Heian è il Giappone di Akira Kurosawa in “Rashomon”. Un cinema tra la figura del samurai e l’occidente, tra la tradizione e la contemporaneità, si muove garbatamente nelle profondità dell’individuo. Un periodo distante, ma nelle contraddizioni umane, intimamente vicino: dietro la forte presenza dell’elemento maschile, anzitutto attraverso il corpo, annaspano intimità dilaniate. Esiste una marcata contemporaneità nel film, un disordine pirandelliano che manipola la verità in una sussurrata dichiarazione: non sussiste una sola versione oggettiva dei fatti, ma tante rappresentazioni degli stessi. Ogni personaggio è l’assoluto dell’altro, veicola e interpreta un mondo dove il diavolo è assente perché fugge dagli uomini.

Il Giappone di Akira Kurosawa, pur nell’ambientazione di un’epoca lontana, è metafora di un paese sotto assedio – il film è del 1950, l’occupazione americana cesserà nel 1952 – dove ogni uomo è il fardello del caos che porta con sé. L’individuo è privo di compattezza, in balia di se stesso, perso nella propria parte: un samurai cade nelle debolezze di un brigante; una donna si muove tra la figura della vittima e quella del carnefice: un cosmo privo di solidità, attraversato da realtà diverse, private di identità e oggettività. I frammenti di vita nelle immagini di Daido Moriyama sono la frammentazione della moralità in Akira Kurosawa, due diversi sguardi sul Giappone. Nel tentare la via del proprio personalissimo interesse, ogni personaggio in “Rashomon”, osserva la propria coscienza andare in frantumi. La pellicola è un’illuminante esegesi del caos: la storia entra nell’individuo e lo scompone. Un’ambientazione antica, lontana da quella gelida e urbana del fotografo, annichilita dall’assenza della natura. La città è l’egoica civiltà , la foresta di “Rashomon” è l’amnesia di civiltà.

Distanti per nascita e per figurazione del reale, si incontrano in quel punto esatto in cui l’individuo negli scatti dell’uno e nei fotogrammi dell’altro, è solo con i suoi demoni. Un isolamento che ha le sue radici nella precarietà dell’uomo, un disordine profondo nelle sbavature di Moriyama e nelle sovrapposizioni dei ruoli in Kurosawa. Sullo sfondo c’è il Giappone dei samurai, dei briganti, delle donne passionali, dei freddi paesaggi urbani, di un’anziana geisha, di un paese che, nell’attraversamento del tempo, osserva un individuo frammentato in uno, nessuno e centomila.

@isabellacesarin

@barbadilloit

Isabella Cesarini

Isabella Cesarini su Barbadillo.it

Exit mobile version