La lettera. Esodo, foibe e genocidio culturale degli italiani istriani e dalmati

Foibe

Caro direttore,

nella giornata del Ricordo (istituita con la Legge n.ro 92 del 30-3-2004 dopo 57 anni di voluto silenzio ufficiale) si è usi nei media riproporre l’infamia delle foibe e l’esodo dei 350mila italiani della Venezia Giulia-Dalmazia, senza mai denunciare la conseguenza più dolorosa: ovvero che alle persecuzioni fisiche è necessario aggiungere il genocidio culturale. Infatti, nei libri di testo scolastici, per oltre 50 anni, mai gli storici hanno affrontato il problema delle foibe e del conseguente esodo, ancor meno hanno spiegato l’interruzione dell’unità culturale che – nei secoli in cui l’Italia non era ancora politicamente unita – formava un’unica koiné nell’intera Penisola, comprese le terre del Confine Orientale. Alla base di questa unità c’era per i chierici l’uso scritto del Latino, poi, con la nascita dei volgari e la loro immediata diffusione, altri strati sociali acquisirono la consapevolezza che, in mancanza di un’unità politica, l’elaborazione letteraria ed artistica poteva divenire il suggello più importante per identificarsi come italici. A riprova di ciò citiamo qualche personaggio che è il testimone più evidente di questa unità culturale e che nacque ed operò nelle terre affacciate sull’Adriatico Orientale.

Iniziamo con S. Gerolamo nato a Stridone (Istria) nel 347 d. C. considerato Padre e Dottore della Chiesa Cristiana perché tradusse la Bibbia dal Greco e dall’Ebraico al Latino. Poi, secoli dopo, nel grande dibattito al sorgere dell’Umanesimo, scopriamo che Leonardo Bruni, nato ad Arezzo nel 1370, scrive un libro: “Dialoghi dedicati a Pietro l’Istriano” comprovando che in quel periodo, così importante per la nascita di una letteratura in volgare italiano, c’è in Istria un umanista degno di partecipare a questo movimento culturale.

Passando nel campo artistico della pittura troviamo Vittore Carpaccio ed il figlio Benedetto che, nati a Venezia, operarono tra il 1480-1560 a Capodistria e Trieste. Sempre a Capodistria nasce nel 1561 Santorio Santorio professore di Medicina Teoretica all’Università di Padova; pioniere nell’impiego delle misurazioni fisiche in medicina; inventore del termometro lunare. Nel campo artistico musicale troviamo Giuseppe Tartini nato a Pirano (Istria) nel 1632: compositore-violinista, autore del celebre “Il Trillo del Diavolo”. Arriviamo, poi, a Ruggiero Boscovich nato nel 1711 nella millenaria Repubblica di Ragusa (Anche qui notiamo l’attuale pavidità italica nel non citare nei libri di testo scolastici l’importanza di Ragusa. Essa nel Medio-Evo, con i suoi commerci, penetrava fino all’interno della Russia e, quindi, insieme ad Amalfi, Pisa, Genova, Venezia, di diritto dovrebbe essere considerata la quinta Repubblica Marinara. Perché il suo dialetto era veneto ed i suoi figli migliori li mandava a studiare all’Università di Siena. Ma siccome oggi i Croati l’hanno ribattezzata Dubrovnik è meglio non rivendicare la sua origine e storia del tutto italica!) e che diverrà, come grande scienziato, il fondatore dell’Osservatorio astronomico dell’Accademia di Brera a Milano. Un altro studioso e scienziato fu il conte Gian Rinaldo Carli nato a Capodistria nel 1720 e considerato, per i suoi scritti di Economia uno tra i più importanti studiosi illuministi italiani. In Dalmazia troviamo Niccolò Tommaseo nato a Sebenico nel 1802; laureatosi a Padova in giurisprudenza predilisse, però, la letteratura. Così compose – tra le molte opere – il primo “Nuovo Dizionario dei Sinonimi della Lingua italiana” e che nel 1848 divenne Ministro dell’Istruzione nel Governo Provvisorio della Repubblica Veneta risorta contro l’Austria. Concludiamo con Antonio Grossich nato a Draguccio (Istria) nel 1849. Medico-scienziato: innovò l’igiene negli interventi chirurgici con l’applicazione sulle ferite della tintura di iodio. Tutti questi studiosi rivendicavano la loro cultura italica, infatti egli esercitando la sua professione a Fiume divenne il Presidente del Consiglio Nazionale Italiano della città e si batté, in tale veste, per la sua annessione al Regno d’Italia, dopo la prima guerra mondiale. In questo succinto elenco ho volutamente escluso illustri personaggi italici nati nelle grandi città come Trieste, Gorizia, Pola, Zara, proprio a dimostrazione che anche nelle cittadine minori come nelle piccole frazioni della Venezia Giulia-Dalmazia, la cultura italica non fu solo predominante per secoli, dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, ma mai si separò da quella che andava formandosi nel resto d’Italia. Ebbene, proprio questa imprescindibile unione ci fa comprendere come mai nel 1861 le prime elezioni dei Podestà e della Dieta della Dalmazia, dopo 50anni dall’inclusione del Regno di Dalmazia, nel nesso dell’Impero asburgico, diedero i seguenti risultati: 28 deputati su 41 (cioè il 70%) appartenevano al partito autonomista dalmata filo-italiano e tutti gli 84 sindaci e podestà appartenevano allo stesso schieramento. Così l’Imperatore Francesco Giuseppe, dopo la terza guerra d’Indipendenza italiana, comprese quanto poco gli Italiani del suo Impero, fossero sudditi fedeli perciò nel “Consiglio de Ministri” del 12 Novembre 1866 diede l’ordine tassativo di “opporsi in modo risolutivo all’influsso dell’elemento italiano ancora presente in alcuni Kronlander e di mirare alla germanizzazione o slavizazzione a seconda delle circostanze delle zone in questione con tutte le energie e senza alcun riguardo”. Così, per esempio, si intensificò la slavizzazione dei cognomi italiani applicandovi il patronimico slavo “ich” finale visto che l’anagrafe era delegata alle parrocchie e che spesso i parroci erano numericamente più croati che italiani.

Avendo perso l’Austria la sua battaglia di egemonia sugli Italiani e subendo il crollo del suo Impero, dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, gli slavi capirono che non bastava il “nessun riguardo” di Francesco Giuseppe. Così, dopo la seconda guerra mondiale, il loro obbiettivo di instaurare nella Jugoslavia una democrazia popolare – annullando qualsiasi volontà di preservare la composita frammentazione etnica – poteva riuscire solo applicando la legge del terrore. Infatti Milovan Djilas membro del C. C. del Partito Comunista della Jugoslavia già dal 1937, poi, membro del Politburò (ufficio politico del C. C.) e quindi uno dei più importanti collaboratori di Tito, nel suo libro di memorie “La guerra rivoluzionaria Jugoslavia” scrive: “Io e Edvard Kardeliij (responsabile del Fronte di liberazione della Slovenia fino al 1945; poi, Vice Presidente del Consiglio dal 1948 al 1953; Ministro degli Esteri dal 1948 al 1953, quindi uno dei massimi collaboratori di Tito) fummo mandati in Istria per convincere con tutti i mezzi gli italiani ad andarsene e così fu fatto…”. E’ ovvio che i mezzo furono: le foibe, le fucilazioni, e le deportazioni; ma ciò non ci stupisce perché, come in tutte le sedicenti democrazie popolari, il potere si conquista solo con il terrore. Maestro fu l’ursa, così la Cina di Mao, per finire con la Cambogia di Pol Pot. La Jugoslavia non nascose la dura repressione instaurata, infatti al Quarto Congresso del Partito Comunista Jugoslavo (1951) tenne un discorso il Ministro degli Interni Anton Rankovic (esso fu publicato nel quotidiano di Belgrado “Politika”) in cui dichiarò ufficialmente che nelle prigioni jugoslave fra il 1945 ed il 1951 transitarono 3’779’776 persone (quasi il 30% della popolazione complessiva che era di 13milioni di abitanti) e che erano 568mila i nemici del popolo liquidati. Tali cifre ci fanno comprendere, nella loro crudezza, che agli Italiani sopravvissuti non restava che l’esodo. Infatti, se erano lavoratori dipendenti furono licenziati; se professionisti furono interdetti; se industriali od artigiani furono privati dei mezzi di produzione; se grandi o piccoli proprietari terrieri furono espropriati: tutto ciò in nome del collettivismo dell’autogestione popolare. Dunque, senza beni materiali e con il terrore delle deportazioni che altro potevano fare dopo il diktat del Trattato di Pace del 10 Febbraio 1947 che cedeva quelle terre agli occupanti Jugoslavi? L’esodo fu di 350mila persone; ma come furono accolti in Italia? Tra l’indifferenza dei più e l’odio dei comunisti che ben si evince da questo articolo scritto da Piero Montagnani e pubblicato su l’Unità (Edizione dell’Italia Settentrionale anno XXII n.ro 284 – Sabato 30 Novembre 1946).

“Non riusciremo mai a considerare aventi diritto all’asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi. […] Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime. Vittime dell’infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste. […]”.

Oggi Renzi definisce bestie chi si oppone all’invasione dei clandestini stranieri, quale epiteto dovrebbe usare per i suoi compagni comunisti che si opponevano all’accoglienza legittima degli istriani, fiumani, dalmati in quanto erano cittadini italiani?
Dispersi in tutte le Regioni, internati in baracche, magazzini (come il Silos del Porto Vecchio di Trieste, in cui io passai la mia infanzia per 6 anni con altri mille esuli), caserme dismesse, conventi abbandonati; nella miseria totale, ma senza perdere la propria dignità e l’orgoglio di essere ancora Italiani. Ben 80mila di questi esuli emigrarono in Australia, Canada, U. S. A., Argentina, Cile e sempre soltanto dopo lunghe pratiche negli uffici di immigrazione, di questi Paesi, dislocati nelle Ambasciate in Italia. E sempre, soltanto, dietro l’accettazione di un “contratto di lavoro obbligatorio” di almeno 2 anni, nelle mansioni scelte dal Paese ospitante.

Da questa dispersione deriva la perdita di quelle tradizioni, costumi, dialetti tramandati da padre in figlio per secoli e che costituisce il maggior dolore per questo genocidio culturale sofferto dagli istriani, fiumani e dalmati.

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Tullio Zolia

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