Esercizi di ammirazione. Giacomo Leopardi, l’indissolubile identità tra verità e bellezza

Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi

Da Recanati partono due strade. La prima, uno di quegli ecomostri appenninici, porta alla faccia mista tra l’idiota e il furbetto con cui Elio Germano recita “L’infinito” ne Il giovane favoloso (titolo bellissimo per un film orribile). La seconda è “una strada tutta curve tra le colline” (cfr. Gómez Dávila). La prima è sovraffollata: “alti lai”, sospiri, una bolgia di nevrotici in cerca del loro campione. L’altra è quella che attraversa la “Batracomiomachia”, la “Palinodia al marchese Gino Capponi”, per esaltarsi infine nel canto altissimo de “La ginestra” e nella critica totale del “Dialogo di Tristano e di un amico”. Ma già “Le ricordanze” spingevano in quella direzione. Immaginate la faccia tra l’idiota e il furbetto a recitare:

“Né mi diceva il cor che l’età verde

sarei dannato a consumare in questo

natio borgo selvaggio, intra una gente

zotica, vil; cui nomi strani, e spesso

argomento di riso e di trastullo,

son dottrina e saper; che m’odia e fugge,

per invidia non già, che non mi tiene

maggior di se, ma perché tale estima

ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori

a persona giammai non ne fo segno.

Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,

senz’amor, senza vita; ed aspro a forza

tra lo stuol de’ malevoli divengo:

qui di pietà mi spoglio e di virtudi,

e sprezzator degli uomini mi rendo,

per la greggia ch’ho appresso”?

Persi in una rarefazione tutta accademica, critici fascisti e critici antifascisti hanno spesso dimenticato di leggere i loro autori alla lettera. Certo è che tra la forzatura ‘ottimistica’ di Giovanni Gentile, tesa a scoprire nelle Operette morali il desiderio di un ‘di più’ che potrebbe precorrere la volontà del fascismo di scolpire la storia sul marmo, e quella ‘progressiva’ di Cesare Luporini, la prima è peccato veniale, la seconda mortale. Nell’intenzione di grandezza del fascismo c’è ancora l’assillo che porta il poeta a torturarsi per trovare la parola perfetta, quell’ordine sensato di suoni che la parafrasi già scompagina e uccide. Nella sete orizzontale di riscatto delle moltitudini, invece, dilatata da parole d’ordine basse e sguaiate, che cosa può essersi infuso della grazia del “fior gentile”? La ginestra leopardiana è il simbolo (infinità sempre singolare) di tutta la bellezza che traluce nella vita degli uomini (ma all’umano ordinario non appartiene); miracolosa, insofferente a spiegazioni e dimostrazioni, mai affidata a regole replicabili, scandalosa perfino per come delizi tanto quanto tormenta – ed è la sua inesauribilità a tormentarci, il fatto appunto di non sentirla circoscrivibile in una formula, un sillogismo, una ricetta: il saperla vertiginosamente rivolta al cielo, più che a noi.

Come al cielo è rivolto lo sguardo del poeta nel momento più alto de “La ginestra”, capace di prodezze dantesche: far suonare di sublime le parole più comuni (‘ondeggi’, ‘mare’; perfino la più lontana dai poeti: la parola ‘mondo’. D’altronde, un intero esercizio di ammirazione ci vorrebbe solo per quel capolavoro che è il verso 130 del canto V del Purgatorio… “Deh, quando tu sarai tornato al mondo”. Letto una volta, ti rimbomba per tutta la vita nel ricordo, con il sapore così grande, tragico e definitivo che ha lì la parola ‘mondo’, straziata, nel verso successivo, dalla gentilezza della clausola che aggiunge la donna: “e riposato de la lunga via…”)

“Sovente in queste rive,

che, desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e su la mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo vòto seren brillare il mondo.”

“Beauty is truth, truth beauty” scriveva Keats, mentre guardava, negli stessi anni, le stesse stelle di Leopardi. Indissolubile l’identità tra verità e bellezza. Il vero ci strazia, ci sconvolge, ci travolge. Ma è il firmamento, il vero. È l’istante che vale una vita; è il momento che la riassume tutta e le assegna un rango. È ciò che accende la volontà (deve nutrirsi del vero, la volontà, altrimenti sarà solo brutalità egoistica). Leopardi è più di tutti poeta del vero. Ci inchioda alla contemplazione del dramma infinito che è la fragilità dell’uomo – non tanto, come vorrebbe Luporini, l’umile, per cui è pronta a sostegno la “social catena”; piuttosto il grande, il genio.

Il vero della “finitudine che non ha limiti” (formula che devo a un vecchio amico insofferente all’autorialità ed è splendida chiosa di un motivo essenziale della poetica leopardiana).

Niente ci disturba come il vero. La storia dell’uomo è una “vasta raggiera di fuga” dal vero. Miriadi di persone sono state torturate o uccise da qualche reuccio miserabile che voleva chiudersi gli occhi, non vedere – talvolta non essere visto (magari mentre frodava i sudditi in un delirio di corruzione).

Ma con la passione del vero quante persone nascono per secolo? Una manciata. Il resto sono dolci poeti di sogno da far venire il diabete a un’intera generazione. E c’è da chiedersi come mai chi teme il vero non tema il retrogusto amaro dell’illusione. Forse, oserebbe Tristano, spera di morire prima di averne fatta esperienza.

Il vero è la passione delle passioni ed è la sola capace di tutte le altre.

“Amami, per Dio!” grida Leopardi per lettera al fratello. “Ho bisogno di amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita…”.

Delizia e durezza del vero. Ci saranno da ammirare, prima o dopo, tutte le pagine più abrasivamente vere, le pagine ‘petrose’ della nostra letteratura. Fondamentali soprattutto adesso che viviamo aggrediti dall’informe e dall’equivoco. Mai come oggi, mai, c’è stato più bisogno della voce di Tristano. Senza arrivare necessariamente alla sua invidia verso i morti. Anche perché, come sapeva Gentile, si può morire più o meno con onore.

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Anna K. Valerio

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