Cinema. I trent’anni de Il Camorrista, se il tabù della malavita si fa pop sotterraneo

il camorristaTrent’anni fa, nelle sale italiane, usciva un film che venne – immediatamente – querelato. Tratto dall’omonimo romanzo di Joe Marrazzo, fu l’esordio cinematografico (premiato con il Nastro d’Argento) di un giovane regista siciliano, di Bagheria, che ancora non sapeva che sarebbe diventato Giuseppe Tornatore. “Il Camorrista”, uscito nel 1986, narra la storia di un uomo che, condannato all’ergastolo per aver ucciso chi attentava all’onore dell’amatissima sorella, non si rassegna a vivere nell’emarginazione. E, citandolo: “Sì aggia passà ‘o meglio r’a vita mia ‘ngalera, l’aggia passà comme a nu capo!”, che per chi è nato, cresciuto e pasciuto a Nord del fiume Garigliano vuol dire: “Se devo passare gli anni migliori della mia vita in carcere, lo farò da boss”.

La storia – e da qui la messe di querele che piovve su film e libro – vuole alludere alla parabola criminale di Raffaele Cutolo. Racconta il film, senza mai far nomi ma anzi cambiandoli, vita opere e (clamorosa) caduta di un self made man della camorra. Il film è lunghissimo, dura quasi tre ore. Però è diventato un cult, sommerso e ultrapop, sempre a sud del fiume Garigliano.

Protagonista è il gran capo, il cui nome nel film non è mai citato. Lo chiamano “Professore di Vesuviano”, professore perchè dispensa consigli e conosce a menadito leggi, leggine e sentenze; è interpretato da un mostruoso Ben Gazzara che riesce a fondere disperazione e orgoglio, lucidità e follia.  Accanto a lui si muove un turbinio di personaggi, più o meno ricalcati su quelli che davvero furono amici o nemici del Professore. Tra questi, solo uno sembra puramente di fantasia: è il poliziotto Jervolino, interpretato da Leo Gullotta in una delle sue primissime interpretazioni drammatiche. Rivale acerrimo del Professore, lo combatte sul piano della legalità e non si rassegna nemmeno ai sotterfugi dei colleghi. Sullo sfondo, la colonna sonora di un gigante come Nicola Piovani.

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Il film, in cui si susseguono omicidi, scene di violenza, torti fatti e riparati, ammiccamenti e abboccamenti, poliziotti veri e dirigenti corrotti, drogati e killer, disoccupati e capizona, dichiara – apertamente – il suo intento didascalico. Non vuole celebrare la criminalità nè incensare la subcultura che a questa afferisce, tutt’altro.

“Il Camorrista”, però, è diventato un cult, si diceva. Anni e anni dopo la prima uscita al cinema. Il perchè sta nel fatto che la storia è coerente, narrata sostanzialmente bene e – quasi neorealisticamente – i personaggi parlano, pensano e agiscono in dialetto. Senza filtri.

Gazzarra, doppiato da Mariano Rigillo, cita l’eleganza macchiettistica di un Nino Taranto e la porta a un parossismo tale da trasformare il Professore di Vesuviano in un personaggio dotato di un suo, personalissimo e morboso, fascino. Un Hannibal Lecter della Camorra Riformata. Calcolatore, freddo, distaccato eppure divertente, a suo (macabro) modo. Fa bene agli amici, fa ammazzare i nemici e trova sempre la frase a effetto adatta a tutte le occasioni (“‘O Malacarne è nu guappo ‘e cartone”, è ancora un cult inimmaginabile nel fu Regno di Napoli) , sul genere per intendersi delle battute che hanno fatto il successo popolare delle scene di ultraviolenza del filone poliziottesco. Per chi tradisce non c’è perdono e c’è pure la sentenza.

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Attenzione, perchè il gusto del “motto” è archetipo importante nell’idem sentire. Dai “cunti” alle novelle (a cominciare dal Boccaccio che nel Decamerone dedica un’intera giornata – la sesta in cui è regina Elissa) la risposta fulminea, salvifica e memorabile, è tema centrale che consente a qualsiasi situazione di trasfigurarsi, da realtà a fatto straordinario. E (anche) questo ha decretato la consacrazione pop del primo film di Tornatore, insieme alla proposizione di un certo slang che fa rapide e decisive sortite nel campo dei codici, linguistici (con tutto l’annesso cifrario tipo, “santi e padreterni”,  “Il serpente davanti, l’anello alle spalle”) e d’onore (con le prosopopee dei battesimi e dei riti d’iniziazione alla bella società).

Gullotta, nel racconto popolare del film, non arriva mai ai livelli del Professore. È chi, paradossalmente, gli salva la vita arrestandolo e con lui divide l’ondivaga volontà della sorte. Resta sempre un gradino sotto, perchè la ricchezza del film è nei gioielli dei personaggi minori. Questi e le loro gesta rendono il film una sorta di calembour di neorealismo, patetico tanto da sconfinare spesso nelle pose da sceneggiata napoletana, sospeso in citazioni surreali, quasi felliniane.

Tipo l’ammazzamento in carcere del Calabrese: mentre il “femminiello” (altra figura archetipica della narrazione specialmente meridionale) canta la celeberrima “Catena”, Gaetano Zarra (Elio Polimeno) e Salvatore (Orlando Forioso) porgono la mano mozza del boss spodestato (‘O Malacarne) all’infido alleato che finirà accoltellato, mentre tutti gli altri detenuti – capita l’antifona – si girano di spalle di fronte al sacrificio in nome dell’omertà.

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E la figura di Alfredo Canale (interpretato da Nicola Di Pinto), che per convincere la “sua” Cettina a sposarlo la prende a pistolettate. È personaggio minore eppur cardine: da fidatissimo braccio destro, diventa “traditore” e il Professore ne decreta la condanna, eseguita in un’altra scena memorabile del film, quella dell’omicidio nelle docce del carcere. Crudissima, Zarra estrae dall’ano il coltello che utilizzerà per uccidere l’ex amico e mentre l’acqua scroscia c’è chi si dà all’amore uranista. Accetta il suo destino, seppur non meritandolo: “Dicitincello ‘o Professore che io nun l’aggio tradito. E mo facite ampresso!”. Dite al Professore che non l’ho tradito consegnandolo alla polizia (e facendolo salvare dall’attentato che i clan rivali avevano già messo in moto). E ora fate presto.

E sullo sfondo, uno scenario di violenza, disperazione e sfruttamento della povertà e della disoccupazione. Con il naturale codazzo di corollari, tipo il voto di scambio e l’arruolamento facilissimo. E questo terrore è il reale che fa davvero paura e che la storia di onore e di coltello, che si racconta sempre una volta che è finita, contribuisce a esorcizzare. Tutte le reti locali, ancora oggi, lo programmano regolarmente almeno una volta a settimana. Il mainstream, con la serie Gomorra, ne ha voluto riprendere temi, narrazioni e contesti. Con (grandissimi) successi di pubblico, in entrambi i casi. È così perché siamo tutti, sotto sotto, camorristi? No, è così perchè abbiamo bisogno raccontarci e sentire di storie, di fatti di racconti che ci aiutino a superare l’orrore del quotidiano.

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Giovanni Vasso

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