Cultura (di M.Veneziani). La faziosa ostilità di Eco per la destra e le sue idee

copertina-sette-dedicata-274695L’Eco di quarant’anni fa torna a bussare in libreria. Lo ristampa Bompiani e viene riproposto col suo titolo anodino, Il costume di casa, e un sottotitolo allusivo: Evidenze e misteri dell’ideologia italiana negli anni sessanta. Il libro è assai istruttivo e non solo perché coincide con un’epoca cruciale che culmina nel ’68 e poi si intristisce nei cupi anni seguenti. È un libro coevo, per capire il clima, alla firma di Umberto Eco apposta al manifesto di Lotta Continua contro il commissario Calabresi, poco dopo ucciso su mandato dei medesimi lottacontinuai. Pagine interessanti, non c’è dubbio, a tratti acute, da cui traggo quattro o cinque spunti utili per capire il presente. Parto da quel tempo. Negli anni sessanta c’era in Italia una vera borghesia, dignitosa e ipocrita, come è poi la borghesia, che aveva senso del decoro e della morale, un discreto amor patrio, un reverenziale rispetto per le tradizioni culturali e religiose, anche se talvolta fariseo. Le sue basi erano i costumi di vita ereditati, la buona educazione e alcune lezioni impartite dalla scuola del tempo.

Eco demolisce quei santuari ad uno ad uno: il senso della tradizione e dei buoni costumi, il senso religioso e il legame con la morale comune, la meritocrazia e “l’illusione della verità”. Auspica una “guerriglia semiologica” (in quegli anni erano parole di piombo), nega il rispetto del latino – “L’ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: Voglio che anche i miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi quando comando”- distrugge i buoni sentimenti e la sua scia retorica, che promanavano dal libro Cuore, libro di formazione di più generazioni che servì a edificare un sentire comune dell’Italia postunitaria e che per Eco è invece “turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, paternalistica e sadicamente umbertina”; elogia Franti il cattivo e vede in lui il modello positivo dei contestatori, anzi di più, lo vede come ispiratore di Gaetano Bresci, l’anarchico che uccise all’alba del ‘900 Re Umberto a Monza. Capite che benzina Eco abbia gettato sul fuoco di quegli anni feroci. Il cattivo maestro Eco poi contesta il filosofo Abbagnano che elogia la selezione e il merito, sostenendo che la selezione sia solo una legge di natura da correggere con la cultura e la solidarietà e auspica “che non ci sia più una società dove predomina la competitività”. Declassa la religione a fiaba e suggerisce non di avversarla come facevano gli atei dichiarati ma più subdolamente di relativizzarla presentandola come fiaba tra le fiabe. Giudica impossibile un Picasso che dipinga l’Alcazar fascista come dipinse Guernica antifascista; dimenticando il filone futurista e fior d’artisti fascisti. (A proposito dell’uso politicamente ambiguo della pittura, cito l’esempio di Guttuso che riprodusse un suo manifesto fascista antiamericano degli anni ’40 in un manifesto comunista antiamericano degli anni 60 in tema di Vietnam. Riciclaggio ideologico).


Eco poi si allarma, come Pasolini e altri, perché sta crescendo agli inizi degli anni settanta la cultura di destra in Italia, ci sono autori ed editori (Il Borghese, Volpe, la Rusconi diretta da Cattabiani). E le dedica uno sprezzante articolo, confondendo volutamente pensatori e picchiatori, “magistrati retrivi” (allora le toghe erano considerate protofasciste) e riviste culturali. Particolare l’acredine verso il suo concittadino alessandrino Armando Plebe, all’epoca approdato a destra ma di cui Eco nega perfino la provenienza marxista (Plebe fu invece l’unico filosofo italiano vivente a essere citato come marxista nell’Enciclopedia sovietica). Eco disprezza autori come Guareschi e Prezzolini, Evola e Zolla, Panfilo Gentile e “il risibile pensiero reazionario”. E fa una notazione volgare: “la nuova destra rinasce soltanto perché un certo capitale editoriale sta offrendo occasioni contrattuali convenienti a studiosi e scrittori, alcuni dei quali rimanevano isolati per vocazione, e altri non sono che arrampicatori frustrati”. Un’analisi così rozza e faziosa non l’abbiamo letta neanche nei volantini delle Brigate rosse. Fa torto al suo acume. E’ come se spiegassimo la cultura di sinistra con i soldi venuti dall’Urss o le firme de l’Espresso-La Repubblica con i soldi di Debenedetti…

Eco avverte i suoi lettori che “il capitalismo come entità metafisica e metastorica non esiste”. Al fascismo, invece, Eco attribuisce entità metafisica e metastorica elevandolo a Urfascismo: il fascismo come eterna dannazione. Sul rapporto tra cultura e capitalismo la considerazione becera fatta sugli autori di destra si inverte quando invece si tratta di un autore “di sinistra”: anche se “ha un rapporto economico con i mezzi di produzione” lui non ne dipende, perché conta “il rapporto critico dialettico in cui egli si pone con il sistema”. Traduco: se la cultura di destra trova investitori è asservita al Capitale e lo fa mossa solo dai soldi; se la cultura di sinistra è finanziata dal Capitale, invece usa gli investitori ma non si fa usare e ha scopi nobili… Può vivere “di prebende largite da chi detiene i mezzi di produzione” perché quel che conta è “la presa di coscienza” (Io direi ben’altra presa…). Loro prezzolati, noi illuminati.

Il testo è utile perché rivela la matrice di Eco: prima che semiologo è ideologo. Mascherato. Esprime quell’ideologia illuminista radical che traghetta la sinistra dal comunismo al neocapitalismo, spostando il Nemico dai padroni ai fascisti, dal Capitale ai reazionari, in cui Eco include cristiano-borghesi e maggioranze silenziose. L’antifascismo assurge a religione civile, a priori assoluto nella lotta tra Liberazione e Tradizione, che sostituisce la lotta di classe.

Questo testo mostra le origini colte della barbarie odierna e della relativa intolleranza. Se viviamo in un’epoca che rigetta la cultura classica, l’amor patrio, le buone maniere, le buone letture, la meritocrazia, la scuola selettiva, forse non è frutto semplicemente del berlusconismo… Infine il testo di Eco dimostra che la destra viene demonizzata anche quando non si può ridurre al rozzo cliché dei picchiatori o dei prepotenti, o mutatis mutandis dei leghisti o dei berluscones. Ma si accanisce sprezzante anche sulla destra colta, i suoi libri, i suoi editori, scrittori e filosofi, oggi da cancellare ieri da eliminare; come accadde a Gentile, prototipo dell’intellettuale out. Un assassinio pensato in seno alla cultura e nutrito col fiele dell’ideologia. Il passato, a volte, echeggia.

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Il professor Umberto Eco scrive per la rinata Alfabeta un “alfabeto per intellettuali disorganici” in cui toglie a chi non è di sinistra pure il magro piacere di dirsi disorganico, scorretto e non allineato. E lo avoca a sé e ai suoi.
Che dice Eco nel suo vademecum per gl’intellettuali? Dice che le invettive contro gli intellettuali vengono sempre da destra e mai da sinistra. Confermo. Superando la nausea di usare ancora queste categorie del millennio scorso, osservo: sì, a destra c’è il gusto dell’invettiva, a volte anche del teppismo intellettuale, lo riconosco. Ma a destra si critica, si attacca, si stronca perfino, un libro o un intellettuale organico o potente. A sinistra invece si censura, si ignora, si condanna a morte civile. O se è un traditore, lo si caccia e lo si sconfessa, destinandolo alla damnatio memoriae; da Vittorini a Pansa, passando per una marea di casi. Quelli di destra avranno mille difetti ma leggono e criticano gli intellettuali di sinistra. L’inverso non accade: la sinistra, intellettuale e politica, ignora e cancella i non conformi o quelli che giudica perdutamente “di destra”.

D
ante era di destra, dice Eco, e sentitamente lo ringrazio anche se mi ribello in cuor mio all’idea di ridurre un Grande a una parte. Ma non capisco perché liquidare chi ama Pound facendone la caricatura nella figura dello skinhead. O ritenere dissennato Evola che ha scritto opere possenti e fu apprezzato da giganti come Benn e Junger, Croce, Eliade e Guénon; criticatelo finché volete, non ne mancano i motivi, ma non era un demente o un invasato.

E
co compie poi un terribile autogol. Scrive che “il vero intellettuale è colui che sa criticare quelli della propria parte, perché per criticare il nemico bastano gli uomini dell’ufficio stampa”. Beh, ho letto svariati attacchi e battute di Eco contro Berlusconi e la destra, ma non ricordo una sola sua critica “alla propria parte”. E la stessa cosa vale per quasi tutti gli eminenti intellettuali della sua “parte”. Allora domando: Eco si è dimesso da intellettuale ed è stato assunto come ufficio stampa del Partito?

F
a un grande passo avanti Eco quando riconosce che gli intellettuali esistono anche a destra e svolgono da reazionari e da conservatori una funzione critica. Non fa nomi, Eco, fedele al negazionismo di cui sopra; si limita a citare Galli della Loggia che né lui né quelli di destra definirebbero di destra. Ma è già un bel passo avanti riconoscere perlomeno l’esistenza dell’Intellettuale Ignoto, reazionario e conservatore, riconoscerne lo spessore e la dignità, e ammettere pure che c’è un’insofferenza del potere nei suoi confronti.

Grillo Parlante è la definizione di Intellettuale che più piace a Eco. Ridurre l’intellettuale al ruolo di ficcanaso molesto, come vuole Eco, significa farne una specie di difensore civico o di petulante beppegrillo.
Penso ai grandi intellettuali del passato e non mi sento di ridurre il loro ruolo a insetti pinocchieschi come il grillo parlante. L’intellettuale vero è animato da passione di verità, è un’intelligenza attiva, scava, indaga, studia, appassiona e si appassiona, e a volte anche denuncia. Ma non si esaurisce allo sportello in difesa del consumatore. Intellettuale può essere solo una generica definizione di base, ma poi ci vuole altro per capire veramente il suo ruolo. Un intellettuale va definito per quel che fa: scrittore, scienziato, insegnante, filosofo, profeta, ricercatore, e via dicendo. Intellettuale è una basic definition che dice poco e nulla. Aboliamola. 

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Marcello Veneziani

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