Il caso. Siena unita per David Rossi tra troppi misteri e la verità possibile

Il corteo a Siena
Il corteo a Siena

Ci sono pezzi che non avresti mai voluto scrivere. C’è una viuzza di pietra serena che corre lungo Palazzo Salimbeni, a Siena, la sede del Monte dei Paschi, e nella quale il 6 febbraio 2013 un passante trovò il corpo di un uomo riverso nel sangue, ancora agonizzante. Quell’uomo era David Rossi, il capo dell’area comunicazione della terza banca del Paese, e nonostante i soccorsi sul posto, i medici del 118 non poterono altro che constatarne il decesso. Un volo di dieci metri, la finestra del suo ufficio ancora aperta, il suo cellulare in bella vista sulla scrivania con un numero digitato sul display. La procura senese dispose l’autopsia, e velocemente il tutto fu rubricato alla voce suicidio. La Banca non se la stava passando bene, “Rossi era stressato più del solito” fu la versione ufficiale, e con quella morte apparentemente senza motivo fu fatto anche il funerale alla coscienza civile.

C’è una vedova, Antonella Tognazzi, che assieme ad una famiglia, quella dei Rossi, non si è mai data per vinta e a quella versione non ha mai creduto. “Me lo hanno ammazzato”, va ripetendo da tre anni, e da tre anni si batte con le armi del diritto, supportata dall’avvocato Luca Goracci, per avere una risposta vera. Il tribunale ha concesso la riapertura delle indagini nel novembre scorso, dopo che furono presentate dal legale Goracci tre controperizie che inchiodano tutti alla responsabilità di dovere e volere fare chiarezza. Una perizia calligrafica stilata dal professor Giuseppe Sofia, professionista che collaborò al tempo anche con il dottor Giovanni Falcone; una perizia medico-legale di parte effettuata con precisione dal professor Aristide Norelli, luminare fiorentino che smonta pezzo per pezzo l’autopsia eccessivamente “scolastica” redatta in fretta dal perito di parte della procura, il dottor Mario Gabrielli; una perizia fisico-dinamica sulla caduta del corpo, fatta con raffinata precisione dall’ingegner Luca Scarselli.

Esito peritale: 1) i biglietti rinvenuti nell’ufficio furono scritti sì da David Rossi, ma sotto coercizione fisica e psicologica; 2) i segni riscontrati sul corpo, tra cui tagli ed ecchimosi non sono compatibili con una caduta di schiena: sono evidenti segni di presa a livello di braccia ed avambracci, un vasto ematoma a livello addominale delle dimensioni di un pugno, ferite al volto, e soprattutto una ferita dai bordi delineati e netti a livello occipitale, conforme all’impatto con un corpo contundente di forma triangolare; 3) le videocamere hanno filmato il corpo cadente di Rossi in una postura impropria (cingoli scapolari già rilassati) sino all’impatto con il suolo: se si fosse gettato di spalle dalla finestra la spinta avrebbe generato una rotazione intorno al baricentro, che però non è avvenuta. Questi sono i fatti, e non sono in discussione. 

In discussione attorno a tutta questa vicenda c’è il contorno di una cittadina che, domenica 6 febbraio, ha deciso di scendere finalmente in piazza, nella Piazza Salimbeni, sotto lo sguardo bagnato e severo della statua di Sallustio Bandini, per chiedere la verità. Non c’erano bandiere di partiti, così come era stato richiesto dagli organizzatori, e anche questo è stato un buon segno. Dalla Piazza del “babbo Monte” fino al Tribunale per affiggere uno striscione “Verità per David”. E #veritàperDavid è stato anche l’hashtag che è rimbalzato sui social. Il Corriere della Sera, scomodando la firma di Sergio Rizzo, proprio ieri è uscito con un pezzone che racconta ciò che è era noto da mesi ma si era taciuto. Davide Vecchi sul Fatto Quotidiano ha dato spazio, come sempre all’iniziativa, ripercorrendone la cronistoria. In piazza c’erano più di 600 senesi a dimostrazione di vicinanza alla famiglia, ma soprattutto per chiedere che la contorta vicenda venga una volta per tutte chiarita.

Ci sono pezzi che non vorresti scrivere, perché con la morte di mezzo è sempre dietro l’angolo la buccia di banana della retorica di complemento. Siena, però, la città delle contrade, della divisione su tutto, ha trovato un’unità da cui ripartire. Non sono mai stato amico di David Rossi, mi hanno raccontato un uomo che non ho mai conosciuto: era il capo della comunicazione di una grande banca, quando il Monte lo era ancora, fiduciario del presidente Giuseppe Mussari, il padre padrone di Siena e che vantava amicizie talmente traversali da far impallidire chiunque: tra finanza rossa e bianca, fino all’incenso dell’IOR. Io ricordo solo il Rossi uomo di potere, che esercitava egregiamente coi media, facendo il lavoro per cui era pagato. Non mi piacevano i suoi modi, ma ciò non toglie che i famigliari e quella comunità vivano l’ennesimo cold case all’italiana, comodo solo a certe logiche stracittadine. E magari proprio a quel groviglio armonioso che tra politica, banca, e lobby della società civile governa non senza riposizionamenti la città da decenni. Certo, restano i punti di domanda: il numero sul display del cellulare di Rossi, che i dietrologi di accatto, prendendo un granchio, hanno subito rimandato al numero di fondazione dell’Istituto delle opere religiose su cui si troverebbe la traccia della cosiddetta tangente frutto dell’operazione Antonveneta; la cronologia modificata delle mail in entrata e in uscita dal server di posta e molti altri dettagli. La magistratura dovrà gettare una luce su questi elementi. Non si può ignorare la richiesta discreta e non urlata di seicento senesi che hanno deciso di scendere in piazza. È il primo scatto di orgoglio di una comunità che ha sempre avuto problemi la memoria condivisa. C’è da augurarsi per Siena che quella di ieri sia stato solo l’inizio di un percorso di palingenesi attorno al quale cementare la propria identità.

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Matteo Orsucci

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