Il caso. Quello che non scrive Satta sugli anni di piombo e il romanzo che verrà

Gentile dottor Satta,

appena vista la recensione di Paolo Mieli sul Corriere della Sera sono corsa a prendere il suo libro (I nemici della Repubblica, Rizzoli 2016). Non speravo di trovarci tesi innocentistiche su Freda e Ventura, ma ero certa che sarebbe stata una lettura più igienica delle solite. Ed è stato così. Ho scoperto pagine che fanno piazza pulita di quelli che il giudice Salvini, con formula vispa, ha definito “autodepistaggi”. Certo, che poi il primo ad approfittare del clima per spingere la mandra dei curiosi in quella direzione sia stato il mio amico Giovanni è vero – lei lo ha giustamente riconosciuto. Alla lunga, forse Ventura è stato il più dialetticamente abile degli avversari dell’Italia postbellica. Pur con il suo carattere generoso, elegiaco, presente a ogni dramma umano con un’intensità straordinaria. Anche questo dovrebbe essere storiografia: raccontare i personaggi che stanno intorno a un fatto in tutta la loro complessità.

Nel suo libro manca questa dimensione qualitativa. Lei crede molto nei fatti. Troppo. Poi, però, non le viene da dubitare sul ‘fatto’ che un elettricista padovano possa, decine di anni dopo il Fatto, aver reso una testimonianza su Piazza Fontana così decisiva da mandare all’aria un principio cardine del diritto: la sacralità del giudicato. Perché il fatto – le parole tardive dell’elettricista – è monco, se non vi si accosta la storia dell’elettricista. Mi sono accorta, riflettendo variamente (come può immaginare) su queste faccende, che verità non è altro che entrare nel romanzo di un personaggio – e il primo pensiero non è trovare la soluzione, cioè il fatto puntuale che interessa ai cronisti e a certi banditori ideologici. Lanciarsi nell’avventura della parola per ricreare le condizioni germinali dei fatti, lasciando all’intelligenza del lettore quel niente che è capire, arrivare alla verità. Operazione molto rischiosa, in quest’ultimo passaggio, come tutto è rischioso e intricato, nella vita. La vita, che è l’incubatrice dei fatti – e dei misfatti.

Non le fa troppo onore aver accettato lo sfregio del giudicato – quindi l’impostura del dire e l’eliminazione del contraddire –, soprattutto quando è lei stesso a dimostrarci che quei tre tribunali che si erano pronunciati definitivamente su Freda e Ventura con sentenza assolutoria non avevano certo mancato di onestà e tenacia e vigore inquisitorio. Ma è un fatto anche il fatto che nessun editore che cavalchi oggi la mercatura le avrebbe pubblicato ottocento e più pagine già lodevolmente antiretoriche, se non fosse stato pagato nemmeno un piccolo obolo all’antifascismo.

È con questa consapevolezza che sono riuscita a passare sopra alle pagine sgradevoli e alle piccole ma clamorose imprecisioni del suo testo (Freda mai fu membro di Ordine Nuovo, per esempio, e tutto quello che fece lo fece da solo, con il suo reticolo di contatti – e contagi – personali, né mai “fu aiutato economicamente dai camerati all’epoca in cui fu processato”), ed è sottolineando la premessa ‘assoluta’ dell’antifascismo che mi permetto di consigliarne comunque la lettura ai troppi che si sono lasciati depistare dagli autodepistaggi della magistratura. Certo, se fosse ancora vivo Sciascia… Già quando Freda era stato deportato dal Costarica in Italia (con metodi ben poco ortodossi) aveva espresso il suo sconcerto, figuriamoci per questo sgarbo della Cassazione 2005! Non finiremo mai di rimpiangerlo, questo gigante discreto della verità.

Lei dunque sostiene che lo stato non c’entri niente con le stragi e che in Italia – a destra come a sinistra – si sia sviluppato un fermento rivoluzionario autonomo e genuino. Benissimo: sono totalmente, ma proprio totalmente d’accordo con lei (non tanto sulle stragi, grande mistero: sul fermento). La sola idea di un Freda manovale del SID mi ha sempre fatto sorridere. Lei, giustamente, la demolisce con un paio di citazioni e mettendo a sistema un pugno di circostanze. Perfetto. Poi, però, liquida come “evasive” queste parole di Freda: “Il ‘secondo me’ è un vezzo essenzialmente democratico. È il lievito di quel chiacchiericcio retorico, ipocrita e superficiale con cui ci si stordisce per non interrogare il mistero, per non farsi interrogare da esso.”

È qui, invece, che comincia il romanzo – non “di una strage” (che film stupido, grottesco, stralunato!), ma della verità.

Perché le ho scritto? Perché sono reduce esattamente da cinque anni di stesura di quel romanzo. Cinque anni in cui io e mia sorella Silvia abbiamo lottato con le parole per rendere la fisionomia di quel fermento rivoluzionario genuino che tra il ’67 e il ’69 ha infiammato il cuore mite di Padova. Lei stesso, tra le pagine del suo libro, ammette che ci sia una grande lacuna storiografica intorno a Freda e a Ventura. Vero: era perfino clamorosa. Non è stato facile colmarla. Non è stato facile vincere il pudore e l’esigenza che noi ribelli sentiamo sempre di impersonalità. Ma dopo decenni di stravolgimenti del reale non si poteva proprio farne a meno. E certe atmosfere, certe avventure, certi personaggi, certi aneddoti erano davvero troppo sugosi per non fissarli in un libro.

Ci diamo appuntamento al “mese più crudele”, allora, con l’uscita di Non ci sono innocenti.

I miei migliori saluti.

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Anna K. Valerio

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