Libri. “Doromizu” di Vattani e la seduzione dell’anima nel Giappone tra patriottismo e noir

IMG_1098Mario Vattani con il suo romanzo d’esordio Doromizu, vale a dire “Acqua torbida”, edito da Mondadori, è riuscito con crudezza ed eleganza a penetrare, raccontando una storia complessa e coinvolgente, nelle viscere di un Giappone poco noto, ad alto tasso di inquinamento morale. Nessuno tra gli scrittori italiani contemporanei prima di lui con tanta passione, unita ad una conoscenza assolutamente minuziosa, ha offerto una descrizione della decadenza celata dallo stupore di una modernizzazione per quanto in affanno pur sempre stupefacente. E quello che ci offre, con il pretesto del racconto noir e ammiccante ad un erotismo appena coperto da un kimono leggero intessuto di parole allusive che scacciano la tentazione voyeristica, è un viaggio nell’anticamera dell’inferno che il diplomatico italiano, rivelatosi eccellente scrittore, compie affidandosi ad un alter ego, il venticinquenne Alex Merisi, fotografo con ambizioni cinematografiche, che rimane avvolto dai fumi si sprigionano in una Tokyo dannata ed incredibilmente attraente.

Nel suo sottosuolo si consuma l’avventura del giovane italo-inglese alla scoperta dei piaceri degradanti e sontuosi, abietti e sublimi, eccitanti e deprimenti, mentre la ricerca della bellezza, unitamente ad una vita lieve dalla quale dovrebbero essere banditi gli eccessi, lo tiene in apprensione. E pure nei momenti di sbandamento, derivanti da compagnie non proprio raccomandabili e da un lavoro “necessario”, ma che non è il suo, non rinuncia ad intrecciare legami vitali ispirati tanto all’estremo limite dell’oscurità del piacere quanto alla voluttà della bellezza nelle forme della fascinosa Tomomi.

Una vicenda raccolta tra i quartieri del piacere (non un’invenzione moderna: sorsero a Tokyo nel diciassettesimo secolo quando divenne capitale), è narrata all’orientale, se così si può dire, tale da rimandare ad atmosfere alla Kenzaburo Oe o addirittura alle minuziose descrizioni di Junichiro Tanizaki, vede protagonista Alex, nella discesa nell’abisso della dissoluzione dalla quale irresistibilmente sembra attratto fino al punto di dissipare se stesso tra notti alcoliche, amicizie sbagliate, frequentazioni disonorevoli ma a loro modo segnate da un senso dell’onore tutto nipponico. Insomma gli scalini dell’abiezione li scende tutti, malgrado gli si presentino degli insperati appigli per non precipitare. L’amore, ad esempio, che non sa cogliere o forse, più semplicemente non vuole coglierlo anche se sente di poterne fare a meno.

Quando si rende conto che il soggiorno in Giappone volge inesorabilmente al termine, soltanto per un motivo burocratico, la scadenza del visto ottenuto  per motivi di studio, realizza come il sogno ostinatamente coltivato sia stato in realtà un incubo che, tuttavia, meritava di essere vissuto fino in fondo, non foss’altro che per assecondare la sua natura di vagabondo all’inseguimento di centro di gravità, sia pure instabile.

La via del ritorno in Europa, intrapresa improvvisamente nella dissolvenza di lividi bordelli e di set porno, comincia con un piccolo atto eroico: la difesa di un vecchio combattente aggredito da un energumeno intenzionato a strappargli  la bandiera di guerra della Marina giapponese nel giorno in cui si commemorano gli “spiriti eroici” nel tempio di Yasukuni, dove riposano coloro che si sono immolati per la patria.

Alex è la metafora cui Vattani ricorre, con uno stile asciutto e temerariamente scintillante in tempi di sciatterie narrative, al fine di mettere a confronto sensibilità diverse unite tuttavia da un sentimento della dissoluzione che connota il nichilismo nelle cui acque si nuota in Oriente come in Occidente. E se la storia nella sostanza potrebbe essere uguale in ogni dove, la connotazione nipponica, lungi dal farne un espediente esotico di attrazione, si rivela come l’intelligente paradigma di una aporia esistenziale: le distorsioni che segnano il Giappone derivanti dall’eterna ed irrisolta lotta tra elementi tradizionali e pulsioni post-moderne.

Yukio Mishima

Una vecchia storia, si potrebbe dire, cominciata tanto tempo fa, quando un generale americano con un tratto di penna decretò che l’imperatore non era più “divino” e la  lacera, vilipesa, abbattuta nazione, distrutta da democratiche bombe, si scoprì nuda. Poi furono scrittori come Yasunari Kawabata ed ancor più Yukio Mishima a metterla di fronte al suo destino, ma la risalita dagli inferi fu lastricata da enormi sforzi che alla lunga l’hanno deformata.

In questa deformazione Vattani situa una storia assai cruda, dove sordidi soggetti sfilano dinanzi al disincantato giovane europeo avvinto ad una certa  idea del Giappone, cui fa da contrappunto la ricerca, ancorché discreta, della bellezza paradossalmente perfino negli aspetti più torbidi. Quasi a voler dire che il putrido mondo di Alex, che certo non corrisponde all’immagine ed alla realtà di un’altro Giappone, quello che non intreccia le sue vicende nel sottosuolo nichilista, dopotutto, può redimersi accarezzando la bellezza che come cedri  avvinghiati alla roccia e puntati verso il cielo intorno ai templi di Kyoto, per esempio, riescono a richiamare il viandante ad una purezza attraente e delicata come una delle giovani donne che dividono carne e sentimenti con lo spaurito occidentale che raccatta semi di sconforto, di lussuria, di disperazione, ma anche di eternità come nei ciliegi fioriti a primavera in quell’Arcipelago di gloria e di morte.

Monte Fuji

Sono i colori proibiti, talvolta tenui, talaltra lividi, con i quali Vattani dipinge il suo avvincente romanzo, non ignorando le torbide acque che fluiscono attorno al Palazzo del Crisantemo nel quale il Giappone eterno continua a vivere. Quei colori Alex presumibilmente se li porterà nell’anima mentre, scrollatasi di dosso la paura, guadagna i cieli d’Occidente dopo aver lanciato l’ultimo sguardo alla maestà del Fuji, perenne richiamo alla bellezza che niente e nessuno potrà corrompere.

* “Doromizu” di Mario Vattani (pp. 327, euro 20, Mondadori)

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Gennaro Malgieri

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