Il caso. Perché gli storici dovrebbero riscoprire il generale Armando Diaz

Armando Diaz
Armando Diaz

Perché riscoprire Armando Diaz

Sono terminate le commemorazioni. E si è scritto di tutto sul centenario del Primo conflitto mondiale. Il dramma europeo. Le nazioni contro. Un attentato slavo e milioni di morti. Poi c’è stato il grande impegno delle istituzioni. Ad esempio, l’Esercito italiano ha portato nelle scuole i tanti racconti della guerra. L’attenzione degli storici ha guardato in molte  direzioni per cogliere il significato degli eventi. Ma questa stessa attenzione è mancata per la rilettura della presenza storica del generale Armando Diaz.

La cosa quasi sorprende. Sembra che la ricerca non sia interessata a rileggere la figura storica di Diaz, il generale della riscossa, lo stratega post-Caporetto, il comandante che mangiava insieme ai soldati sui tavolacci del fronte. Se ad uno studente domandassimo il nome di un generale italiano, forse, non andrebbe oltre il nome di Giuseppe Garibaldi. Eppure, fu Lloyd George, severo statista, che esclamò, “Diaz è una grande mente!”

Insomma siamo rimasti un po’ stupiti dal non aver letto ricapitolazioni storiografiche o nuove pubblicazioni sul Duca della Vittoria, sul generalissimo che, dopo aver parlato ad un umile soldato, fu circondato da altri soldatini che gli dissero, “Lei è un generale che ci capisce!”. Nei manuali di storia tuttavia non è dato il giusto spazio a questo militare italiano. Spesso poche note ricordano il comandante che sostituì Cadorna nel 1917. E queste poche considerazioni non mettono in luce il militare che riorganizzò le truppe sul fronte; e lo fece straordinariamente applicando la teoria del fianco difensivo per smettere con la vecchia idea dell’arretramento strategico. Diaz fu lo stratega che preparò la grande battaglia. Ricostruì i reparti, specialmente quelli d’assalto, rilanciando l’arditismo.

I tedeschi pubblicano su Von Clausewitz; si riempiono la bocca con il blitzkrieg di von Moltke e von Schlieffen. I francesi raccontano le glorie dell’esercito bonapartista e le marce de La Grande Armée. E gli storici italiani? Oggi, di sicuro, il ricercatore potrebbe rileggere il Diaz che scrisse documenti geniali  sul concentramento delle forze belliche. È vero, egli non rappresentò l’immagine del guerriero napoleonico. In quanto fu realistico e paziente. Però divenne micidiale nel colpire al momento giusto, alla faccia degli alleati che avevano spinto affinché l’Italia buttasse nel fuoco altra giovane carne. Si dice che Diaz ricordasse la frase di von Moltke,“Prima ponderare, poi osare.” Cioè, prima preparare la battaglia, poi scattare. Così egli osò. E il successo nel 1918 lo raggiunse dopo una preparazione intelligente. Un successo che non gli fece montare la testa.

Dopo il trionfo, recandosi nella capitale per ricevere gli onori, dichiarò, “Non un uomo ha vinto, ma un popolo…”. Dopo non accettò incarichi speciali, neppure per sbloccare i disordini del biennio rosso. Fu un ministro leale nel governo Mussolini dal 1922 al 1924. Fu un fedele servitore dello Stato. E tutto questo basta per avviare nuove prospettive critiche?

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Renato de Robertis

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