Romanzo Higuain/1. I primi passi su selciati alieni

Higuain
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Pubblichiamo a puntate il romanzo di Marco Ciriello su Gonzalo Higuain, ultima stella del firmamento del Napoli, della Seleccion e del campionato italiano

Si potesse applicare la ragione al gioco, si arriverebbe a sapere perché un calciatore segna e ribalta: partite e stagioni, o non segna e delude. E di come l’improvvisazione prevalga sugli schemi, meglio riassunta da Manlio Scopigno in: «date la palla a Gigi Riva». In questa lunga storia dei gol di Gonzalo Higuain non c’è ragione – o forse sì, ma è nascosta e non la vedranno che i giornalisti che verranno, quando appunto si conosceranno le ragioni dell’azione, dove risiede anche l’unica speranza, almeno a sentire Jean-Paul Sartre – ma una forza enorme, la sua, che è poi quello che ripetono tutti: da suo padre Jorge fino all’ultimo compagno che gli ha passato il pallone. Higuain appare immune dalla confusione calcistico-generazionale, e intento, invece, a costruirsi, affinarsi, organizzarsi, fino a prendersi la cima. A passare in rassegna le sue prime foto con la maglia che gli cade larga addosso, di lui bambino con un sorriso aperto da un piccolo spazio triangolare tra i suoi denti superiori, fino alle ultime: quelle con la maglia della nazionale argentina nelle foto per la Copa America, c’è sempre lo stesso sguardo acceso di un ragazzo inquieto, uno che ha bruciato le tappe ma non gli è bastato; uno che si è fatto largo in una nazionale dove viene contestato Lionel Messi, dove i “gregari” – di fantasia ed intersecazioni – sono Javier Pastore, Ezequiel Lavezzi ed Erik Lamela; uno che ha tolto il record a Gunnar Nordahl con una rovesciata come vertice di una tripletta; uno che ha rischiato di rimanere inchiodato a due rigori sbagliati: contro la Lazio – concedendole i preliminari di Champions League – e contro il Cile – regalando la prima Copa America al paese –, potremmo dire che nel mondo di Higuain si sbaglia alla grande, aprendo strade alla felicità altrui, ma, invece, questi errori ci servono per capire quanto sia vera l’affermazione che si passano tutti su di lui e a vederla da qui sembra uno schema di Pep Guardiola con la scritta al centro: “Gonzalo Higuain è indistruttibile”, che poi è anche il tema centrale di una biografia che gli ha dedicato il giornalista di “Marca”: Ulises Sánchez-Flor. E, a passare, invece, in rassegna le prime interviste, si capisce anche il resto, Higuain a 14 anni dice che vuole arrivare nella prima squadra del River Plate (quasi una estensione familiare) e di lì a poco ci riuscirà, complice Daniel Passarella, ma poi aggiunge che vuole andare a giocare in Europa, magari al Real Madrid, altra cosa che succederà – grazie a Fabio Capello –, manca il Napoli – nei suoi pensieri non nella sua vita, come vedremo –, che ogni argentino conosce perché è la squadra di Maradona, ma no, lui non ci pensava, allora, come non ci pensava nella sua ultima partita al Real Madrid, perché all’orizzonte c’era l’Arsenal, e soprattutto Arsene Wenger e ora questo pezzo, forse, lo scriverebbe Nick Hornby, e starebbe sull’ “Observer” in uno speciale su Higuain e il romanzo dei suoi gol; ma sempre nel gioco delle probabilità, forse, Higuain non avrebbe battuto nessun record e però metteva dentro il rigore col Cile e oggi Jorge Sampaoli allenava la Lazio, e i minatori cileni rimanevano investiti di nuovo sotto una sconfitta, e via così. Ma è andata diversamente, perché così doveva andare questa storia, e Gonzalo Higuain era legato a Napoli – e ai suoi errori – molto prima che cominciasse a giocare a pallone, e quel nodo si chiama(va) Patrizio Oliva e passa(va) per la boxe, correndo sui treni argentini che non sono mai passati per Londra, per questo non poteva andare all’Arsenal. A verniciare quei treni a dodici anni, era Santos Zacarìas, seguendo suo padre, ma guardandosi intorno (andava in giro a vendere giornali) e scoprendo che usare i guantoni rendeva di più che dare la vernice – i pennelli poi saranno ripresi da sua figlia Nancy ma niente a che vedere con i treni, lei salta dai binari alle tele, dalle stazioni alle gallerie (d’arte) –. Santos con suo fratello Tito Zacarìas – che gli faceva da Don King – allenandosi in una palestra a Temperley, arrivò a sfidare, nel marzo del ’51, Dogomar Martìnez Casal – che ancora oggi è considerato il più grande pugile della storia uruguayana – e perse, claro que sì, ma ne fece tesoro: capì che non doveva continuare a tirar pugni ma insegnare a farlo, e divenne allenatore, anche se ci mise altri dieci incontri per maturare la decisione: meno di Totti e più del padre di Agassi. Sì, è una storia che sarebbe piaciuta a Osvaldo Soriano che avrebbe telefonato a Eduardo Galeano per farsi raccontare del pugile che rappresentò l’Uruguay alle Olimpiadi di Londra del 1948 e giù giù fino al nonno di Gonzalo Higuain. Che, divenuto allenatore e acquisito il titolo di “Don Santos” portò due ragazzi argentini dove lui non era arrivato: ad essere campioni del mondo. Il primo, Sergio Victor Palma, vinse il titolo mondiale dei Super Gallo nell’agosto del 1980 a Spokane negli Stati Uniti, battendo Leo Randolph. Era un guerriero tutto riccioli, cuore e convinzione, che nonostante la sconfitta ingiusta, otto mesi prima contro il colombiano Ricardo Cardona, non si di-sperse proprio grazie al suo allenatore, che lavorò a lungo e duramente per riportarlo sul ring, convinto delle sue capacità, dovendo lottare contro una timidezza che appariva al limite della codardia. A volte non basta essere bravi e lavorare sulla tecnica, per la boxe occorre anche la caparbietà di imporsi in un posto scomodo, scavando con i pugni quello spazio, qualcosa di molto simile a una miniera, almeno a sentire “Don Santos”. Alla fine Zacarìas ebbe ragione, Palma vinse il titolo, ma decise di lasciare la boxe, dopo la vittoria tanto inseguita. L’allenatore ci rimase male, gli sembrava assurdo, per i suoi canoni, salire in cima e mollare. Il secondo, Juan Martin Coggi, fu quello che gli diede più soddisfazione, vuoi perché c’era una maggiore esperienza da parte di “Don Santos”, vuoi perché aveva più fame e voglia non solo di vincere il titolo ma di rimanere sul ring, o vuoi perché l’allenatore mise subito in chiaro le cose dicendogli: «non farmi perdere tempo come quell’altro». E Coggi apprese la lezione, il 4 luglio 1987, aggredì il campione del mondo dei superleggeri, Patrizio Oliva, fino a spingerlo fuori dal ring a pugni. L’aggressività di Coggi – ricordava in piccolo quella di Carlos Monzón, con l’aggravante che l’argentino aveva picchiato Nino Benvenuti – lo faceva sembrare una affettatrice e, dopo aver spinto a terra e fuori dalle corde Oliva: gancio sinistro, gancio destro, montante sinistro, gancio destro, diretto sinistro e il pugile italiano cade oltre il quadrato. Si rialza ma è appannato, lento, intontito, e Coggi, elettrico e veloce il doppio, lo usa come un sacco, pugni su pugni – soprattutto di sinistro – fino a stenderlo al tappeto. Nelle immagini dell’incontro, si vede anche Santos Zacarìas, che poi prende in braccio il ragazzo che aveva imparato la lezione. Cinque mesi dopo a Brest, nasceva Gonzalo Higuain, nipote di Santos Zacarìas. Maradona, che aveva già risolto la guerra con l’Inghilterra: con la mano e i piedi di Dios, dichiarò di voler bene a Patrizio Oliva, ma chiarì che avrebbe tifato per la coppia  Coggi-Zacarìas, uno dei primi vagiti del nazionalismo maradoniano che investì pure Potito Starace a Buenos Aires nell’incontro – poi perso – con David Nalbandian. Così Napoli, con Patrizio Oliva entrò nei ricordi del nonno di Higuain, nell’album di famiglia e nella vita del futuro attaccante. Un nonno dal quale ha ereditato la cura per i dettagli – almeno stando alle interviste di sua madre Nancy, la pittrice – una scuola delle minuzie empiriche, quasi che ci fosse una formula di famiglia che porta al trionfo, oltre il DNA, anzi in aggiunta a questo. Il resto sono coincidenze: le uniche certezze della vita, come ripeteva un grande attaccante portoghese Josè Saramago, in un zigzag che ha come vertice la palestra di Santos Zacarìas ad Almirante Brown, nella provincia del Chaco, dove, poi, suo figlio Alberto Zacarìas crescerà Carolina Duer, campionessa mondiale dei pesi gallo – continuando al femminile la corsa verso i titoli pugilistici –, e si allunga nello stadio Monumental – dove Higuain metterà in pratica tutto il pragmatismo del nonno: segnando ogni volta che serve, dai derby River Plate – Boca Juniors, fino al suo esordio in nazionale – e arriva in Europa: da Brest a Madrid a Napoli. Tipo uno di quei grafici, che ora mostrano tutti dalla tivù ai giornali, con i movimenti in campo, solo che la nostra – anzi quella di Higuain – è una cartina geografico-sentimentale e si muove in un campo che sta tra due continenti. Rimettere insieme questo zigzag higuainesco è quello che proveremo a fare, nessuna speculazione intellettuale troppo intricata, solo vita e pallone, campi e aeroplani, partite e magliette, e su tutto i gol, che sono il linguaggio di Gonzalo Higuain. Se cercate le immagini delle sue prime partite – regista suo padre Jorge – lo vedrete già segnare un gol che credo replicherà fino alla vecchiaia: dopo aver dribblato un difensore al limite dell’area, riesce a calciare in movimento cercando l’angolo lontano della porta – trovandolo –, con la mano sinistra che a pendolo oscilla per dare equilibro alla coscia destra che calcia, e poi lui che si volta e sorride. Se, suo padre Jorge, invece che un difensore del River Plate, fosse stato un Brian De Palma, avrebbe sovrapposto questi gol. Perché, in fondo, è quello che facciamo tutti, in modalità diverse, segnare sempre lo stesso gol, con un trucco che abbiamo imparato attraverso la somma dei nostri errori.

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Marco Ciriello

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