Il caso. Se gli investimenti cinesi in Italia si misureranno (anche) in scudetti

L'inter parlerà cinese
L’Inter parlerà cinese

Prima sono arrivati in Italia per vendere clavatte. Poi hanno creato le China town, a partire da quella di Milano. Quindi hanno trasformato Prato in una città satellite. Ed ora sono passati allo shopping. Ma dopo aver svuotato le boutiques di via Montenapoleone, hanno deciso di passare all’acquisto diretto delle aziende italiane. Non è stato difficile, per i cinesi. D’altronde loro hanno la liquidità necessaria per comprare e gli imprenditori italiani non hanno più le capacità per fare impresa. Dunque vendono. Ed i cinesi comprano.

In ogni settore. Hanno cominciato con investimenti puramente finanziari. Poi sono passati a rilevare le industrie. Ora è la volta del calcio. Perché a Pechino, a differenza di Mosca, hanno perfettamente compreso l’importanza del soft power. E, dunque, il calcio e lo sport in genere diventa la prosecuzione – o, si spera, l’alternativa – della guerra. Si conquistano i Paesi non più con le truppe, con gli eserciti, ma creando debiti di riconoscenza da parte delle popolazioni locali perché gli investitori cinesi creano o mantengono i posti di lavoro.

Non è neppure un saccheggio, in molti casi. Non si acquistano le aziende italiane per depredarle di tecnologie e macchinari, trasferendo le imprese in altre parti del mondo, magari con qualche manager italiano pagato molto meglio di quanto facessero gli industriali di casa nostra. Ora, basti pensare alla Pirelli, l’investitore asiatico entra nel capitale dell’azienda italiana e garantisce gli investimenti che i braccini corti italiani avevano difficoltà a sostenere.

Ma l’offensiva di Pechino è a tutto campo. Da un lato ci sono gli acquisti di aziende che servono allo sviluppo dell’industria e dell’agricoltura della Cina. Dai macchinari agricoli alle macchine per imballaggi, dall’automotive alle moto. E poi ci sono gli acquisti di marchi e aziende che operano nel settore del lusso. Il bello del made in Italy che resta prodotto in Italia ma con capitali cinesi. Dal produttore al consumatore, ma all’interno di una filiera interamente asiatica. In totale sono più di 300 le aziende italiane partecipate da capitali di Pechino, con quasi 18mila addetti ed un giro d’affari che si avvicina ai 10 miliardi.

Gli investimenti cinesi in Italia

Con tutti i rischi che comporta la vendita della manifattura italiana alle multinazionali straniere. In termini di sicurezza di posti di lavoro, di durata dell’investimento, di conservazione della produzione nel territorio d’origine. Ma anche in termini di risorse finanziarie. Le banche italiane, piccole e mal gestite, sono un boccone estremamente interessante per i colossi cinesi che possono incamerare i risparmi italiani per trasferirli in ogni parte del mondo, a seconda degli investimenti ritenuti più convenienti. Per questo Pechino ha deciso di puntare anche sul soft power. Per far conoscere la propria cultura, il proprio stile di vita e rendere il tutto accettabile agli italiani. Negli Usa hanno puntato sul cinema, acquistando catene di sale per la proiezione dei film e poi gli studi cinematografici. In Italia, inevitabilmente, sul calcio. Prima l’Inter, a seguire probabilmente il Milan. Perché attraverso il calcio – già conquistato con i diritti televisivi – è più agevole entrare in rapporto con gli italiani, facendo digerire di tutto e di più. L’unico rischio, per Pechino, è di non vincere campionati o coppe. Per un popolo come quello italiano, indifferente ad ogni tassa o ad ogni sopruso pubblico purché la squadra del cuore vinca, la sconfitta nel calcio rappresenterebbe un’onta non sopportabile.

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Augusto Grandi

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