Euro2016. Perché l’Italia di Conte ha asfaltato il super Belgio dei fenomeni

conte sanguinolentoDue palle così, scagliate con forza dietro le spalle larghissime del robottone Courtois, hanno regalato agli azzurretti di Antonio Conte la vittoria, sudata e bella, contro i poteri forti di Bruxelles. L’Italia contiana non cicca la prima e raccoglie già il primo miracolo, quello di trasformare – e ci si passi il lessico mutuato pari pari da quel campionissimo della penna che fu Giovanni Arpino – le tremendissime jene in eccitatissime belle gioie.

La partita è stata vinta dalla sagacia del condottiero che non s’è fatto scrupolo di prendersi – per i primi venti minuti – le jasteme di tutt’Italia per aver lasciato in panchina gente di lusso come Lorenzinho Insigne, Sandro Florenzi e il Faraone (non più mummia, grazie ad Ammon) El Sharaawy. Aveva ragione lui. L’aveva capito prima degli altri che, come diceva il generale Ferdinand Foch, le guerre si vincono con la ferrea determinazione degli uomini nel furore bellico che solo la mystique de la volonté può infondere a coloro che vogliono farsi dèi. E se Foch trovò conforto alle sue teorie solo nell’epica della Marna, Conte ha assaporato la soddisfazione di trarla in saccoccia (finora) agli scienziati del pallone atomico.

Anche perché Wilmots non è von Schlieffen e il Belgio, seppur avanzante, aveva la retroguardia più scoperta di quella di Carlo Magno a Roncisvalle.

Il Belgio (e non solo quello di Lione) è una squadra di fenomeni che però, come ci ha ricordato Gianni Mura alla vigilia della sfida di Lione, ha una difesa disegnata da scenografici pali della luce. Non ci fosse stato tra i pali il signor Courtois – il Djokovic della porta – sarebbe finita molto prima per i Diavoli Rossi che la stampa sportiva in patria ha già degradato ad accozzaglia di novellini.

I fuoriclasse belgi, poteri fortissimi dal centrocampo in su, sono rimasti occulti. Solo Hazard ha seminato il panico e Mertens, nel secondo tempo, ha dato più di un pensiero alla stoica retroguardia italiana. Deludentissimo il centravanti Lukaku che Giancarlo Dotto su Dagospia conferma come “scarsone sopravvalutato”. Naingolaan è meno cazzimmoso del solito e De Bruyne somigliava troppo al principe Harry dopo una seratissima delle sue. Fellaini, da biondo, non cambia il suo status di immensa promessa mancata del pallone.

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L’Italia ha giocato come da sua migliore tradizione. Cioè catenaccio, difesa, lancio lungo di Bonucci e Giaccherini hobbit che la piazza in rete causando indirettamente la ferita lacero contusa al volto del generalissimo Conte; resistenza a oltranza, contropiede e Candreva la alza per il poderoso destro del momentaneamente monco Pellè che la sfila di potenza e frustrazione dove nemmanco cyber- Courtois può più arrivare. In mezzo un pregevole fraseggio da fascia a fascia, con delle vere e proprie savane che si aprivano per gli esterni alti azzurri. Automatismi sbagliati ce ne sono stati, a dirla tutta. Però è stato bellissimo vedere la nazionale giocare al meglio delle sue possibilità, sfruttando l’antico sapere sapienzale, teorizzato e tramandato dalla sopraffina analisi etno-pallonara che compì Gianni Brera (a proposito, in tempi folli come quelli d’oggi il Giuanin passerebbe i guai suoi a concionare di caratteristiche fisiche e Volksgeist, ma non lo dite a nessuno) che unica possibilità è di battere il Melicerte globale del tiki-taka melinista.

L’ha vinta Conte, si diceva. E pure la retorica dell’italiano all’estero che, snobbato, spernacchiato e deriso, si fa gigante, raddrizzatore di torti e campione. Alla retorica di Toto Cutugno, però, qui sarebbe da preferire l’epica di Ettore Fieramosca, antichissimo conterraneo del cittì italiano. Il primo avversario, con la prosopopea sua, è caduto. Sotto a chi tocca.

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Giovanni Vasso

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