Calcio. Soldi, affari e zero cuore: il pallone rotola nel deserto

Striscione-higuain-infame-752x440La Glopallizzazione del calcio ha due effetti radicali: di qua sproporziona le opportunità del mercato e sballa il valore commerciale del brand, di là svilisce l’elemento identitario. Il vero cornuto nonché mazziato del new world pallonaro è il tifoso. Che sarà meglio chiamare, da qui in poi, il paleo-tifoso.

Non fa in tempo a idolatrare un calciatore, a farne il suo ultimo delirio amoroso, che se lo ritrova il giorno dopo a percuotersi l’eventualità molto remota di un cuore sotto la maglia del nemico, dopo averla pure baciata con simulato trasporto. Ma come, è proprio lui quello a strisce bianco e nere, il nostro Gonzalo che cantava sotto la curva ‘O surdato nnamorato? Cuori straziati. Tocca farci il callo. In fretta.

Due volte strapazzato, il paleo-tifoso. Prima dal fatto in sé, poi dall’immancabile messaggio di addio, qualcosa che vorrebbe consolare la massa dei cornuti e invece li umilia definitivamente. Higuain e Pjanic di questi tempi i casi più eclatanti, passati a colpo ferire come nulla fosse nell’Odiata, ma tutto si ripete uguale nel pianeta, dal traditore seriale Ibra al pivello Pogba, via degenerando. In questa nuova scena, dominata dai Raiola e dai suoi cloni, aggredita dai capitali esotici, persino il gesto recitativo dell’omaggio al tifoso è ridotto a qualcosa di miserabile. Non ci sforza più neppure di sembrare credibili.

Il paleotifoso è il primo a non saperne di sé. Ripete spesso lo slogan: “Tifiamo solo la maglia!”. Falso! Anzi vero, ma solo nella misura in cui la maglia è abitata da un soggetto epico che ti facilita lo sbalzo tipo barone di Munchausen del corazon mongolfiera (senza Totti o chi per lui non c’è maglia della Roma, nessuna maglia). Ora sì, inibito all’amore verso l’eroe e condannato ad amare solo la maglia, cioè il vuoto disabitato dell’impresa, la bidimensionalità ottusa dell’involucro, un feticcio, per di più sgangherato dagli sponsor, ecco che il tifoso è costretto a reinventarsi. Diventare altro.

A fare sesso con un sagomato ed effimero cartoon da show, che cambia nome da una stagione all’altra. Il tifoso diventa consumatore indifferenziato, vuoi anche divertito, meravigliato, accalorato, di un circo che non è mai il suo. Applaude gol senza nome. Amen. Il calcio senza identità tribale perde volentieri la sua anima, considerandola poco meno che un ingombro, e sceglie già da un pezzo altre strade mostre e maestre.

Silvio Berlusconi, uno geniale zelig capace di diventare tutti i nomi della storia, cantante di piano bar, palazzinaro, tycoon televisivo, impresario di calcio, politico, Casanova, ha persino adattato i tratti del volto, si è cinesizzato, nell’estremo tentativo delirante di essere lui il compratore di se stesso, del suo non più magnifico Milan.

Il Berlusconi al suo capolinea evoca anche somaticamente il cinese che sarebbe stato se non fosse nato a Milano. Che maledir si voglia, anche il Galliani che se ne va, strabuzzato tifoso da teca televisiva. In favore di un asettico e apolide Fassone, smembra un altro pezzo d’identità.

A casa Inter stessa solfa. I capitali ormai più indigenti che indigeni non reggono il confronto con quelli di misteriosi cartelli si accampa di tutto. Dove sei finito, Massimo Moratti, riconoscibilissimo totem della tribù nerazzurra? Sparito anche tu nel grande caos, dove l’enigma cinese si aggiunge a quello indonesiano, messi insieme da un potentissimo terzo, quel Kia Joorabikkian, l’agente di origine iraniana che ha fatto saltare il banco Mancini e portato Frank De Boer, una scommessa, alla Pinetina. Lui, come Jorge Mendes e Mino Raiola, i sempre più famelici procuratori, sempre più immischiati nelle scalate dei club, tra l’hobby d’affari e palesi per quanto ignorati conflitti d’interessi.

Il business avanza e fa il paio con il deserto. Tra diritti televisivi, i loro, e i doveri televisivi, i nostri, è già lì alle porte, 2018 la Super Champions, una mega champions stellatissima, quattro posti garanti per le quattro nazioni principali, Italia inclusa, aspettando la Superlega, che prima o poi verrà, perché tutti la vogliono, a parte forse i soliti inglesi che si fanno i soldi in tasca e scoprono che i diritti televisivi del loro campionato (3,2 miliardi), valgono più della Champions e dell’Europa League insieme (2,3 miliardi). In quanto alla parrocchietta nostrana del mai nostro Don Tavecchio, abituatevi a considerarla da qui a breve come oggi si considera un onesto campionato di B.

*Giornalista, scrittore, biografo di Carmelo Bene. Da Dagospia. 

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Giancarlo Dotto*

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