Esteri. Milosevic ultimo epigono del patriottismo socialista slavo

Milosevic
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Il Tribunale dell’Aja scagiona Milosevic dalle pesanti accuse che lo avevano visto a lungo sotto processo. La notizia è passata sotto silenzio sui media europei. Ripubblichiamo allora un articolo di Maurizio Cabona, una cronaca dei funerali in Serbia per il leader di governo socialista.

Più fortunato di Bettino Craxi, Slobodan Milosevic riposa ora in pace nella natia Pozarevac, dopo l’addio struggente di Belgrado. Qui ieri la temperatura era appena sopra lo zero, ma cinquantamila persone sono state per quattro ore in piazza e in lacrime per la cerimonia organizzata dal Partito socialista serbo (Pss). Al capo liberamente eletto e rieletto per quattordici anni della Jugoslavia, le pressioni della «comunità internazionale» hanno negato funerali di Stato. Non hanno potuto negargli funerali di popolo. E illustri presenze straniere, come i russi Zyuganov e Baburin, ancora temibili. Coi suoi danti causa, il Tribunale penale internazionale (Tpi) credeva Milosevic un Noriega balcanico; ora sa che era un Allende. L’ex ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Ramsey Clark, rivolto alla folla dal palco, ha detto poche ma sentite parole: «Il Tpi è illegale». L’applauso seguente s’è sentito fino all’Aia.
Si diceva però di Allende. L’ha evocato Milorad Vucelic, vicesegretario del Pss. Uno striscione tra l’immensa folla sintetizzava gli ultimi sei anni così: «La Nato uccide con le bombe. Il Tpi uccide col veleno». Comunisti? Ma non c’è stata una sola bandiera rossa, né fra le decine di migliaia di persone di Belgrado, né dopo, fra le decine di migliaia lungo la strada fino a Pozarevac.
Ovunque c’erano solo bandiere bianche, rosse e blu, i colori della Serbia, i colori della Jugoslavia. Perché la Serbia storicamente era e miticamente è il cuore della Jugoslavia. Perderla e capire l’’importanza di questa miniatura dell’’Impero asburgico è stato tutt’uno. Mezzo secolo di pace alla frontiera orientale, l’esercito russo fermato in Ungheria e nessun tedesco a est e a sud di Tarvisio sono buoni motivi di rimpianto per l’’Italia. Quanto all’’Istria, Tito ce la tolse nel 1947; nel 1992 Milosevic s’offrì di restituirla. Nessuno però pare ricordarlo, visto che nessun esponente politico italiano è venuto a Belgrado in questi giorni, comunisti ed ex comunisti meno che mai.
Nel 1980, quando morì Tito, anche i suoi funerali furono affollati, ma ufficiali. Per la diplomazia però solo quest’ultimo dettaglio conta. Si precipitarono a Belgrado capi di Stato di tutto il mondo, Pertini incluso: solidarietà partigiana prevaleva sul ricordo delle foibe. Emir Kusturica si divertì poi a mettere in evidenza i lati grotteschi di quelle esequie in uno dei suoi film più noti. A proposito: ieri, per l’’estremo saluto al suo amico Slobo, Kusturica non s’è visto. Sebbene con «La vita è un miracolo» (2004) abbia firmato uno dei rari film a favore di Milosevic, anche lui pare esser rimasto vittima delle pressioni della «comunità internazionale». Comprensibile, se non elegante: Kusturica, serbo-musulmano di Sarajevo (Bosnia), ha solo cinquantadue anni e spera di girare qualche altro film.
Quanto al fantasma di Tito, aleggiava dietro a quello di Milosevic fin dal luogo scelto per i due giorni di veglia funebre, il Museo della Rivoluzione di Belgrado. Ieri mattina, quando i giornalisti aspettavano in piazza l’arrivo della salma, il momento più significativo della giornata per chi guarda alla cronaca come frazione della storia: alle 10 in punto, l’’ultimo picchetto d’onore, con Vucelic in prima fila, si è posto ai lati della bara in una sala ormai vuota, perché gli ingressi erano chiusi dalla sera prima. In questa architettura razionalista, tipica del realismo socialista, la bara è stata portata a spalla fino al furgone in basso, più piccolo delle due mastodontiche Mercedes anni Cinquanta di Tito, che arredano l’ingresso del Museo.
Del resto, coincidenze non solo tipografiche, ma anche storiche, si sono addensate in questi giorni. Milosevic è stato lasciato morire all’Aia a tre anni dalle letali fucilate contro Djindjic, ambigua figura che aveva trovato il sostegno prima di Soros, poi di Solana, e aveva rovesciato non il governo di Milosevic (deposto due anni prima), ma quello dell’avversario di Milosevic, Kostunica. Ed era la morte di Djindjic a dare il pretesto per la proclamazione dello stato d’assedio per mesi, con l’arresto di diecimila oppositori politici su una popolazione attorno agli otto milioni di abitanti, anche questo un fatto che giornali e telegiornali dimenticano facilmente.
Non solo. Milosevic è stato sepolto ieri, esattamente nel cinquantatreesimo anniversario della visita di Tito a Londra, subito dopo la morte di Stalin. L’evento mise in ulteriore allarme l’Italia sul destino del «Territorio libero di Trieste» e portò poi il presidente del Consiglio Pella a mandare truppe alla frontiera.
Da allora i nostri rapporti si distesero con Tito e furono buoni con Milosevic anche durante la guerra contro i croati, armati da Kohl e Genscher con gli arsenali dell’ex Ddr: se dalle parti di Zagabria vedete una statua di Genscher, ora sapete perché c’è. I rapporti furono buoni anche durante la guerra coi musulmani di Bosnia, sostenuti dall’integralismo islamico di tutto il mondo, sauditi in testa. E divennero cattivi quando l’ex comunista D’Alema imitò l’ex socialista Mussolini, favorendo a colpi di bombe il distacco dalla Jugoslavia del Kosovo. (da Il Giornale, 19 marzo 2006)

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Maurizio Cabona

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