L’intervista. Ermanno Rea: “Napoli, Nord e Sud del mondo e la miseria che è sempre brutta”

Ermanno Rea
Ermanno Rea

Pubblichiamo in ricordo di Ermanno Rea l’intervista rilasciata dallo scrittore ad Andrea Di Consoli sull’Unità nel 2004. Rea è morto ieri notte a 89 anni a Roma

Ermanno Rea, autore di libri importanti come L’ultima lezione, Mistero napoletano e La dismissione, è uno scrittore di realtà. Tutti siamo coscienti dell’insidiosità di questo termine, eppure, quando si affrontano temi legati alla concreta sorte umana nel mondo, le sottigliezze filosofiche, scusate il bisticcio di parole, si assottigliano. Ermanno Rea è nato a Napoli, ma è sempre vissuto, sin dal 1957, tra Roma e Milano. Attualmente vive a Napoli, dove dirige la Fondazione del Premio Napoli. È stato un grande giornalista, di quelli che, nell’arco di una vita, hanno ritratto un Paese e un’epoca. Poi, quando sono usciti i suoi primi libri, il racconto dell’Italia è cresciuto in verticalità, al punto che alcuni suoi personaggi (certi comunisti napoletani durante la guerra fredda, il grande economista Federico Caffè, l’ex operaio di Bagnoli, ecc.) hanno acquisito il maggiore titolo a cui possa aspirare un personaggio letterario: l’emblematicità.

Abbiamo incontrato Ermanno Rea per parlare di Napoli e del Sud, ma soprattutto per riflettere, dieci anni dopo, sui vari «rinascimenti meridionali» (di natura politica e artistica) degli anni Novanta. Ha davvero senso la categoria di Sud in Italia? E ancora: scrivere da Sud è una particolarità che distingue realmente, oppure questa particolarità non ha più senso? «Innanzitutto vorrei respingere la definizione “Rinascimento napoletano” – risponde Rea – perché a me sembra l’enfatizzazione di una situazione nuova ma che non può essere definita rinascimento. Semmai si è creata una situazione che poteva e può lasciar sperare in un rinascimento, in quanto speranza. Con la fine della guerra fredda, con la caduta del muro di Berlino, è caduta un’epoca, abbastanza terribile per una città come Napoli. In Mistero napoletano affermo, verso la fine, che nell’Europa del dopoguerra ci sono state due città vetrina: Berlino e Napoli. E che Napoli è stata una città sequestrata dalla storia, dalla guerra fredda, in cui le lancette dell’orologio si erano fermate. Quando cade il muro di Berlino, questa situazione finisce di colpo e quindi i napoletani si riappropriano della propria città, sentono di poter fare di nuovo quello che vogliono. Concludevo in questo modo: “Vediamo se saremo in grado di rimboccarci le maniche”. Si è dato il caso che a quell’epoca ci sono state le elezioni municipali e che Bassolino ha sicuramente incarnato questa speranza, ma una cosa è incarnarla, questa speranza, altra cosa è risolvere i problemi. Il cambiamento di prospettiva non significa che le cose sono cambiate. I napoletani debbono a questo punto mobilitarsi per cambiare la situazione oggettiva. È un’azione che tocca in larga parte ai napoletani, ma soprattutto alle forze politiche. A Napoli – prosegue Rea – il problema del lavoro è rimasto il problema centrale: lo era e lo è tutt’ora. Io vivo a Roma, ho lasciato Napoli nel 1957, e sono stato invitato a tornare a Napoli da Antonio Bassolino e da Rosa Russo Iervolino, per fare qualcosa in questa città. Bene. Quando mi affaccio dalla finestra del mio ufficio, sulla destra vedo il palazzo della prefettura e ogni giorno ci sono schiere di disoccupati. È un chiasso infernale, una protesta che non finisce mai. Napoli è una città presa d’assedio da queste schiere di disoccupati».

Recentemente, su Il Mattino di Napoli, l’economista Massimo Lo Cicero, all’indomani del terribile omicidio di camorra a Forcella, ha ventilato come unica soluzione possibile, per una città così congestionata ed esplosiva, l’opzione exit, ovvero la fuoriuscita di una parte della popolazione verso lidi più sicuri. Insomma, una riedizione del fujtevenne di Eduardo De Filippo. Ermanno Rea contesta questa tesi: «Io non concordo con Lo Cicero, perché qui il problema non è nell’eccedenza di abitanti. Intanto c’è il problema enorme del centro storico, delle sacche di povertà o di falsa povertà, e comunque dei quartieri infetti. È un’infezione urbanistica di tipo sociale e questo è un primo problema, poi io ripeto sempre che quando si parla di Napoli bisogna capire che si parla di una Città-Regione. Napoli ormai si è allargata enormemente. E dunque, quando si parla di disoccupazione, il problema del lavoro investe una metropoli davvero sconfinata. Ma bisognerebbe avere elementi conoscitivi più profondi. Io per esempio non so fino a che punto i sindacati siano padroni della situazione. È stato giusto incentivare un polo turistico, ma il computer nel vicolo non lo vedo ancora come fonte di reddito. A Napoli di mortalità imprenditoriale ce n’è in abbondanza e c’è un coacervo di problemi, questo è sicuro. Quello che non c’è o quello che vedo scemare, invece, è proprio la mobilitazione a livello sociale. Oggi la gente si è rimessa a sedere».

E gli intellettuali? Che ruolo hanno gli scrittori, i docenti, gli architetti in questa fase storica di Napoli? «Da un punto di vista intellettuale, Napoli è stata una città dalle tradizioni importanti. Ci sono anche centri culturali di notevolissima rilevanza. Vorrei spendere una parola a favore dell’Istituto di Studi Filosofici di Marotta, insomma, avere una presenza di questo genere, che movimenta a Napoli una cultura a livello internazionale (cosa che accade soprattutto al Nord, dove i filosofi parlano addirittura in piazza) mi sembra una cosa importante. Vorrei anche ricordare alcune cose significative, per esempio una stradina come quella di Portalba, dove ci sono librerie, presenze, fermenti e piccoli editori-librai. La figura dell’editore-libraio è davvero unica, e non credo che molte città italiane vantino un patrimonio del genere. Anche le università sono poli di vita culturale molto forti. Poi, ovviamente, c’è anche l’intellettuale scontento, la voglia di criticare, anche legittima, per carità, perché Napoli è una città difficile, dove spesso non vengono compiute neanche le cose più elementari. Mi chiedo, per esempio, per quale motivo a piazza Trieste e Trento, dove c’è il Teatro San Carlo, dove parte via Chiaia, che è un’arteria importante della città, non ci sia neanche un semaforo o una striscia pedonale. Ecco, a Napoli non si fanno le piccole cose. E questi sono problemi che suscitano insoddisfazione. Comunque è il solito discorso, sin da quando ero ragazzo: a Napoli o si recita o si va via».

E ancora, sul ruolo degli intellettuali e su una certa critica di chi tende a vedere Napoli come una città «resistenziale» rispetto al progresso dei costumi e delle tecnologie e di conseguenza ad accusare la città di tradimento di quelle stesse ragioni «resistenziali», Rea aggiunge: «Ci sono alcuni intellettuali, e non voglio fare nomi (il riferimento è a Goffredo Fofi, ndr), che dicono: “C’era stato promesso il rinascimento e questa città è stata omologata”. È un discorso un po’ folle. Magari Napoli fosse omologata a Parigi! Ma che cosa si vuol dire: che i vicoli dovrebbero essere come erano una volta? Questo è un ragionamento implicitamente razzistico. Cosa si rimpiange, la miseria? Oppure i ragazzini che si prostituivano? È inaccettabile sostenere che anche la miseria è diventata brutta, mentre prima c’era una miseria bella. La miseria è brutta sempre, in tutte le forme possibili».

Sullo scrivere a Napoli, Rea ha le idee chiare: «A Napoli c’è molta materia. Io sono stato a Roma e a Milano, e faccio la spola, ma comunque spero ancora di scrivere un libro su Napoli. Quando riuscirò a separarmi dal Premio Napoli mi chiuderò in un quartiere preciso e scriverò questo libro. Napoli offre materia sconfinata, materia per le narrazioni, basta amare la realtà, avere il cuore aperto e occhi per vedere quello che succede. A Napoli, per uno scrittore, c’è cacciagione a volontà». Carmine Donzelli e Domenico Cersosimo, qualche anno fa, pubblicarono un libro intitolato Mezzo Giorno , in cui si delineava per la prima volta in maniera netta e sistematica un Sud plurale (ci sono tanti Sud differenti, ecc.).

Chiedo a Rea se crede anche lui, come tanti, che il Sud Italia sia un luogo compatto e privilegiato a livello culturale e creativo. «Io direi che si tratta sostanzialmente di un luogo comune. È meglio chiarire subito: io parlo di Napoli (Sud è un contenitore dove ognuno ci mette tante cose diverse, io mi limito a Napoli, al massimo alla Campania). Ecco, direi che sicuramente la città, per la sua storia, non solo per quello che è oggi, ma per ciò che è stata nel tempo, sicuramente è una città aperta sia verso il Nord che verso il Sud. Napoli è un anello di congiunzione: lo è tra l’Europa nel suo complesso e il Sud del mondo, per la sua posizione a un passo dall’Africa e dal Medioriente. Allora io direi che Napoli è la città che presenta queste due facce e le presenta in modo esasperato, con tutte le sue grandi contraddizioni. Basta guardare il centro storico, ad esempio, uno dei pochi rimasto integro, intatto, ci sono alcuni quartieri in cui si ha l’impressione di cascare in una sorta di terzo mondo. Qui, contemporaneamente, si tocca con mano la compresenza del primo, del secondo e del terzo mondo. Sono questi alcuni degli elementi che ne fanno una città dalle molte facce. Quindi io direi – conclude Ermanno Rea – che oggi come oggi Napoli, senza enfatizzare il Sud come categoria mentale o sentimentale, certamente è una città in cui il Sud mostra al tempo stesso i suoi aspetti migliori e peggiori, con punte di eccellenza e punte di sottosviluppo. Tutto ciò le affida, appunto, un ruolo particolare: quello di essere anello di congiunzione tra Nord e Sud del mondo».

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Andrea Di Consoli

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