Il caso. The Young Pope, viaggio celiniano nella Chiesa

Il giovane papa, The Young Pope
Il giovane papa, The Young Pope

«Proprio perché non riesce più a detestare le altre religioni, perché le comprende, il cristianesimo è finito: manca sempre più di quella vitalità da cui procede l’intolleranza. E l’intolleranza era la sua ragione d’essere. Per sua disgrazia ha cessato di essere mostruoso». Papa Pio XIII, nato Lenny Belardo, ha sicuramente letto “Il funesto demiurgo” di Emil Cioran. Fatta questa premessa, è necessario farne un’altra: The Young Pope – serie televisiva ideata, scritta e diretta da Paolo Sorrentino, il cui protagonista è per l’appunto il giovane Lenny Belardo, orfano, cardinale e successivamente giovane papa – è uno straordinario racconto lungo dieci puntate. Un successo figlio delle “cattive” letture del regista Sorrentino. Anche lui, è ormai evidente, ha forgiato e attinto il suo materiale immaginifico dai “cattivi maestri” della letteratura; il suo merito è nel non nasconderlo; il suo limite è nel rimanere sempre con i piedi ben piantati sulla soglia del baratro, il suo non oltrepassare mai la linea di confine che esiste tra il lavoro sulle sfumature permesse, accettate, ben viste (dalla sensibilità del grande pubblico) – che portano sulla strada della celebrazione – e quelle più accese, dirette, nette, che portano alla probabile emarginazione, a un minore successo su scala planetaria, alla cosiddetta inappagante “nicchia” («accontentarsi equivale a morire in vita», dice Lenny Belardo, ovvero Paolo Sorrentino). Un successo, questo di The Young Pope, che è appunto anche un poco orfano, come Pio XIII, come il regista napoletano di fronte alle sue letture. Questo, è bene ribadirlo, nulla toglie alla sua straordinaria riuscita, alla sua potente forza narrativa. Anzi, al pari de Il Divo, è un prodotto nettamente superiore ad altri suoi passati.

Il pensiero corre subito, ad esempio, al suo lavoro cinematografico “Le conseguenze dell’amore”; al suo, di amore, per Louis-Ferdinand Céline. Una passione evidente, esplicita, omaggiante. Ma in quel film pluripremiato, in quel Titta Di Girolamo che ne è il protagonista nulla sembra esserci di quell’abisso céliniano intriso di sensibilità stratosfericamente corrosiva, sulfurea, infernale, divinamente pura, delicata, bambina. Sarà anche colpa di Toni Servillo… Questo è quanto. Nulla di autenticamente céliniano, a parte una scena in cui viene letta una pagina di “Viaggio al termine della notte”. Lo stesso vale per il successo mondiale “La grande bellezza”, che per l’appunto si apre con il celeberrimo esergo del “Voyage”. Tant’è che se il film si fosse concluso lì… esaurendosi in quel fotogramma… dentro il buco nero di quel cannone… dopo una manciata di secondi… che capolavoro sarebbe stato! E invece altre due ore di pura noia. Sarà colpa, anche qui, di Toni Servillo… della sua sconfortante mancanza di tatto céliniana. E anche un po’ di Sabrina Ferilli. Piuttosto che a Ferdinand Bardamu, Jep Gambardella assomiglia a Roberto D’Agostino. Questo va detto, senza voler entrare nel merito del virtuosismo cinematografico, il virtuosismo dell’immagine, non è quello il punto. Lo sappiamo bene, «non c’è niente di più disperato, a confronto di questo vizio delle forme perfette», valeva per le gambe delle ballerine francesi, vale per tutto il resto. Di certo siamo ben lontani dall’assassinio perfetto a firma Elio Germano, cimentatosi nell’avanguardistica operazione di recitare a teatro il già citato “Voyage” come fosse stato catapultato sul set de Il Padrino.

Ma torniamo al giovane papa, alla sua inappuntabile santità («la santità è una perversione senza eguali, un vizio del cielo», dice Cioran). Un grande ritratto è questa serie televisiva. Lo è perchè si fa ammirare, guardare anche da chi è ben consapevole, magari, che bisognerebbe farla finita una volta per tutte, per dirla con Artaud, col giudizio di dio. Più volte ci viene detto e gli viene detto: Pio XIII è un santo. E artisticamente la questione è croccante, interessante, poichè l’arte è sempre in odore di santità. Lenny Belardo è un santo che non crede in dio (questo gli viene rimproverato dai suoi più stretti collaboratori), eppure crede. Come ne “I demoni” di Dostoevskij, ci viene in aiuto la teoria di Kirillov: «Stavrogin anche se crede, non crede di credere. Se invece non crede, non crede di non credere ». Ecco il discorso sulla negazione di Dio e sulla necessità che l’uomo prenda il suo posto: da dio all’Uomo-dio. Ecco la necessità, per Lenny Belardo, di trasformarsi da uomo a santo. Attraverso la via dell’assolutismo, dell’oscurantismo, della forza, dell’affermazione assoluta, dell’imperio: ecco il vero santo. Ecco l’essenza del cristianesimo, la sua vera forza. Lenny lo sa, esige di indossare il Triregno papale. Ecco, finalmente, l’avvento di Cesare Borgia papa: «Scorgo una possibilità di magia e di fascino di colori ultraterreni; mi pare che risplenda con un tremito di raffinata bellezza, che in essa si sveli un’arte così divina, così diabolicamente divina, che è vano cercare nel corso dei millenni una simile possibilità: contemplo uno spettacolo nel medesimo tempo tanto pieno di significato e così meravigliosamente paradossale che tutti gli dèi dell’Olimpo avrebbero avuto ragione di scoppiare in una risata, Cesare Borgia papa… Ho reso l’idea?» (F. Nietzsche). Pio XIII è un santo tediato, infastidito, la molla della sua azione è tutta di matrice terrena (il confronto con i genitori), è tutta impregnata di slancio egoistico. Quasi ci riscatta dalla passata esistenza di Pio IX, ultimo sovrano dello Stato Pontificio, contro il quale gli anticlericali garibaldini regalano perle in musica e strofe di speranza: «E sulle mura di quei conventi/ piazzeremo, piazzeremo i nostri cannoni/ e ai preti e ai frati/ quei birbantoni/ il buon giorno lor lo daremo noi». Nel corso delle puntate, però, un velo di rammarico si fa spazio: che Lenny Belardo stia cedendo, come molti degli interpreti di Sorrentino, all’annacquamento, a un destino edulcorato, al cosiddetto “lieto fine”? Questa è l’impressione. A Cesare Borgia si è voluto contrapporre, quasi a fare da contrappeso, il cardinale Voiello, don Abbondio della curia. E il personaggio appare anche molto riuscito. Ma che non finisca lui, infine, per fare il papa… La speranza è che The Young Pope rimanga sul filo di una narrazione “mistica” («Tutto è niente – questa la rivelazione iniziale dei conventi. Così inizia la mistica. Tra il niente e Dio c’è meno di un passo, perché Dio è l’espressione positiva del niente», ancora Cioran) col sottofondo musicale di Nada. Che non si freni dando troppo spazio alla sua incoffessabile italianità. Che Sorrentino vada fino in fondo e dica chiaro, con Cioran, che «si crede in Dio soltanto per evitare il monologo tormentoso della solitudine. A chi altri rivolgersi? Si direbbe che Egli accetti volentieri il dialogo e non ci serbi rancore per averlo scelto come pretesto teatrale dei nostri scoramenti».

«Dacci un Papa simile a questo ultimo uomo, o Zarathustra»; questa implorazione di Nietzsche la facciamo nostra e la giriamo a Paolo Sorrentino.

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Saverio Mazzeo

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