Cinema. Viggo Mortensen è Captain Fantastic: la natura primordiale si oppone alla modernità

CF_00091_R_CROP (l to r) Nicholas Hamilton stars as Rellian, Annalise Basso as Vespyr, Samantha Isler as Kielyr, George MacKay as Bo, and Viggo Mortensen as their dad Ben in CAPTAIN FANTASTIC, a Bleecker Street release. Credit: Erik Simkins / Bleecker Street
Captain Fantastic (pg uff time out)

 

Persino lo yin hollywoodiano ha il suo yang. Celato, timido, inquinato, tenuto in vita da un fronte piccolo ma guerriero. A combattere in prima fila, accanto ad Eastwood, c’è sempre stato Viggo Mortensen, che ha strabiliato le platee con l’ennesima interpretazione non conforme agli annacquati canoni della “pussy generation“.

E’ infatti da pochi giorni uscito nelle sale “Captain Fantastic“, ultima fatica di Matt Ross, che ha affidato proprio a Mortensen il difficile ruolo di un padre che cresce i suoi figli nelle foreste senza tempo della costa nord-occidentale dello Stato di Washington, rifiutando ogni legame con il mondo moderno, sguazzante nel bieco materialismo consumistico e stordito dagli infernali – e illusori – comfort borghesi. Ben Cash (Viggo) reagisce trincerandosi asceticamente nella natura, educando i figli a scuola di sopravvivenza nel bosco, tra allenamenti militari e scalate da alpinisti. E letture, letture, letture, conversazioni (e venerazioni) su Chomsky, sulla degenerazione della modernità, sulle derive del taoismo. “I nostri figli diventeranno re filosofi. E’ la Repubblica di Platone”, dice Ben alla moglie che presto, lacerata dalla depressione e dal peso di una vita così eccezionale, sceglie il suicidio. E la scuola di vita in una campana di vetro si frantuma, mettendo spietatamente l’intera famiglia di fronte alla necessità di rapportarsi con la società odierna.

Ma la pellicola offre molto di più. E’ un punto di partenza e di arrivo, è l’immagine – possibile e a suo modo vincente – della concreta possibilità di un ricongiungimento alla natura primordiale, al suo soffio che abbraccia l’esistenza, sicura perché cullata nell’incontaminato. Il film dimostra che si può percorrere ancora il bosco heideggeriano senza perdersi: la luce c’è nonostante i colpi mortali del progresso. La famiglia diventa comunità attorno al Fuoco, dolcemente connessa da suoni ancestrali di cornamuse e chitarre (che potrebbero senza problemi suonare anche Battisti: sarebbe una colonna sonora perfetta), inni di una realtà anarchica e bucolica insieme, che guarda alla Montagna evoliana, senza sterili impulsi emotivi ma quasi con la consapevolezza del suo significato più intimo e assoluto. Questa esperienza, cioè, permette di vedere dove gli altri non vedono. Il prezzo? La totale inadeguatezza al mondo ‘reale’.

 

Cf (itunes)

 

Per quanto il film – accolto da un tripudio al Festival di Cannes – sia, anche solo di facciata, una commedia e si conceda e ammicchi alla cultura New Age – in tutte le sue sfaccettature – e a infatuazioni socialiste-sessantottine che ‘contaminano’ la purezza dell’intero immaginario, l’opera apre uno squarcio su è doveroso riflettere. Forse Aragorn ha solo cambiato veste e armi. Ma la sostanza, racchiusa nel suo sguardo, è sempre la stessa.

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Francesco Petrocelli

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