StorieDiCalcio. I trent’anni di Giovinco, ultimo “nano sulle spalle dei giganti” con il numero 10

Giovinco
Giovinco (Goal pg uff)

“La nostra età fruisce del beneficio delle precedenti, e spesso conosce molte cose non per esservi giunta con il proprio ingegno, ma illuminando con forze altrui anche le grandi opere dei padri. Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani che siedono sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere molte cose anche molto più in là di loro, non come per acutezza della propria vista o perché più alti di corporatura, ma perché siamo sollevati e innalzati da gigantesca grandezza”. (Giovanni di Salisbury)

 Bernardo di Chartres ci aveva messo in guardia. Un giorno sarebbe arrivato l’erede – anche fisicamente minuto di fronte ai titani, giusto per rendere meglio l’idea – dei numi con il numero 10, si sarebbe messo sulle loro spalle e avrebbe tenuto vivo il loro fuoco, alto il loro verbo.

La storia di Sebastian Giovinco è la storia dell’umano che ha sfidato il suo fato. La Juve – sua madre, sua amante mortale – neanche finisce di tenerlo in grembo che lo manda a farsi le ossa ad Empoli (per accogliere, tra i fasti, il Genio di Sergio Almirón). È il 2007 e il ventenne torinese inizia il suo viaggio nel migliore dei modi: si sblocca il 30 settembre contro il Palermo. L’Empoli non riesce a salvarsi ma lui sì, terminando la stagione con sei gol e tanti riflettori addosso: il web gli assegna il Premio Leone d’Argento e la dirigenza bianconera si affretta a riportarlo a casa. È la prima vera pagina di un romanzo senza fine, con pagine strappate dall’eros e dalla gelosia frutto di troppe incomprensioni. La Formica Atomica gioca un campionato convincente (bene anche in Champions), ma le campagne del 2010 dei tenenti Ferrara&Zaccheroni lo relegano ai margini del progetto, costringendolo a migrare verso altri lidi. Parma lo accoglie come un Santo Patrono (che costa caro: un milione per il prestito) e il tandem con il glaciale sicario Bojinov funziona, Giovinco convince e segna sette gol. L’Italia lo guarda ed è sicura di aver trovato il suo 10.

Giovinco Juve (jmania)

 

Il Parma cinge Seba per un altro anno – in cui segna quindici gol -, ma la legge del tempo (specie quando si parla di eredità dell’Età dell’oro) è ineludibile: la Juve lo richiama a sé. Incominciano due anni di per Giovinco, che passa da nuovo Del Piero – con gol pesantissimi come quello del 5 maggio 2012 contro il Palermo, che fa vincere ai bianconeri lo scudetto – a giornate e giornate di delusioni, di errori, di prestazioni sottotono. La Vecchia Signora, dopo una relazione dilaniata, è stanca di aspettare il giorno della consacrazione (sempre più lontano dal giorno del battesimo) e lo caccia di nuovo via, sbattendo la porta. Per sempre, questa volta. Solo il sogno americano può salvare la Formica da un’immeritata damnatio memoriae. Ed ecco che a gennaio 2015 si aprono le porte del reame del Toronto FC, che gli offre uno stipendio annuale di 8,5 milioni di dollari. Troppo per un eterno incompiuto e soprattutto incompreso? Giusto investimento per alzare il livello della Major League Soccer? I fatti parlano: Giovinco insegna da due anni calcio, fa accademia, preziosismi, ha riempito lo stadio di Toronto (e tanto basta per noi), viaggiando a numeri alieni per l’Europa, battendo i suoi stessi record precedenti. Calciatore yankee dell’anno, e probabilmente del millennio. Ora la Cina plutocratica lo esige, lo invoca a gran voce, ma lui non sembra intenzionato ad obbedire. Sarebbe troppo banale.

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È tempo di capire chi sia e chi sia stato Sebastian Giovinco, eterno giovane appena arrivato alle trenta candeline. La Formica è stato il sogno sfumato, appassito, il lacerante amore della giovinezza, indelebile ma per natura destinato a non durare. A riempire la testa di rimpianti. È stata la fiamma dei fantasisti del passato, trequartista poliedrico in via d’estinzione, seconda punta, instancabile assist-man generoso e goleador atipico. Dispensatore di virtuosismi, anarchico d’eccezione, per un attimo entrato nel Pantheon del calcio. Troppo gracile per i grandi, troppo grande per i normali. È stato quell’effimero e sfuggente sapore a tinte bianche e nere del numero 10 di un tempo, lascito forse troppo pesante per la sua statura. È stato ciò che è mancato alla Nazionale (non ha mai realmente inciso in azzurro), e che forse manca ancora. Sopravvalutato per molti, sprecato per tutti. E lui, che proprio in questi giorni ha raccontato di aver rifiutato il Barcellona spaziale – “per non fare il raccattapalle, a me interessa giocare”: è la stessa motivazione del primo divorzio con la Juve -, spera ancora di avere un’ultima occasione – anche in azzurro, Ventura avvisato mezzo salvato – e far ricredere definitivamente chi, deluso e spazientito, ora, con un pizzico di nostalgia, lo guarda tramandare l’arte del pallone oltreoceano. Nessuno è profeta in patria.

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Obafemi Martins

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