Cultura. “Lettere agli editori” di Céline, il genio che viveva della magia delle parole

L.F.Celine
L.F.Celine

Chi più chi meno oggi si è in difetto di precisione, siamo approssimativi. O meglio approssimati, attori un po’ impacciati nel film di cui siamo anche registi nell’incontro con la trama della realtà. Siamo spesso, ammettiamolo, pessimi registi, il nostro racconto è appena abbozzo e lo lasciamo in balia degli eventi. Non sempre siamo degni arrangiatori della musica intorno.

Fra i molti antidoti in circolazione contro paralisi e imprecisione c’è anche la scrittura di Louis-Ferdinand Céline. Anzi diremmo antidoto la vita intera dell’uomo che per il secolo fu il dottor Destouches, compresi suoi abbagli ed ossessioni. Incoraggia la cocciutaggine di Céline, il suo strambo illuminismo accompagnato da un senso altissimo di una vocazione, di una missione. Messianico è nei romanzi, fra i fondamentali del ‘900, ma anche nell’epistolario Lettere agli editori, ottimamente curato e tradotto da Martina Cardelli e pubblicato da Quodlibet. L’operazione è inedita, dato che il volume antologizza per la prima volta insieme lettere dal 1931 al 1961 dirette soprattutto a Gallimard, Denoël, Jean Paulhan. Gustose e profonde per ogni appassionato di prosa céliniana, le epistole dirette agli editori danno un’idea ancora più completa del personaggio.

C’è vocazione messianica fin dal principio, quando freme per pubblicare Voyage au bout de la nuit, frutto di cinque anni di lavoro. Destouches è un medico, ma è sicuro di meritare una carriera letteraria. Si sente un operaio, da retribuire per la scrittura prodotta. Forse i poveri delle banlieues preferisce curarli gratis, come un Rosacrociano di qualche secolo prima. Impegnarsi per la salute altrui sarebbe compito di ognuno, Céline è sicuro di poter far del bene anche con il suo romanzo, come minimo alla letteratura patria. Vende “una specie di sinfonia letteraria, emotiva”, e “populismo lirico, comunismo con l’anima”. In sintesi, “pane per un intero secolo di letteratura”; e aggiunge profetico, “momento capitale della natura umana”. Ovviamente non deve essere alterata nemmeno un virgola del manoscritto. È un fondamentalista della sua personale rivelazione, come se avesse agito sotto degna dettatura. L’autore, comunque garantisce di saper scrivere e che il romanzo è da pubblicare così: prendere o lasciare. Consapevole della venalità della controparte, si definisce “un eccellente investimento”. Anche perché lui con quelle parole ci vuol vivere e segue con concentrazione assidua il destino dei volumi da lui firmati. Quanta di quella carta sacra è in circolazione in Francia e all’estero? I libri “non sono refoli di vento” e devono trasformarsi in denaro, in serenità, nella libertà di non impensierirsi nel comprare un’aringa. Ma “non solo di odio, insulti, avversità, orrori, anche di farfalle ho bisogno”, scrive dopo gli anni dell’esilio, quando gli esiti della guerra mondiale lo costringevano all’autodifesa continua e alla prospettiva della miseria. Sa di avere nemici, soprattutto Sartre (“lurido moccioso con l’hobby della sbronza”, “la mia tenia”, “teppistello”), nei connazionali in generale (“sono un folkloristico patriota sfrenato in un paese di lacché e bastardi”). Sente di aver espiato abbastanza per “l’unico crimine” di aver creduto nel “pacifismo degli hitleriani”. E pensare che la Germania gli ha sempre fatto orrore. Comunque, l’Apocalisse è prossima, “non possiamo far nulla per ritardarla”; Destouches ha fatto esperienza in medicina, sentito farneticare molti agonizzanti e riconosce quel tono nella civiltà europea ed occidentale.

Non rimane che scrivere bene, allora, come via per vivere bene, per bene interpretare il proprio film. Céline si sente già un classico, aspira alla Pléiade, si sente pietra miliare perché è stato il primo a capire che in letteratura tutto è crollato con l’arrivo del cinema. Risulta ridicolo scrivere romanzi ottocenteschi; urge altro, urge “la resa emotiva”, permessa soprattutto dal parlato, da dialoghi o monologhi stralunati ma del tutto realistici. Qualcosa che avviene al di là del tempo che scorre, della cronologia della narrazione, qualcosa che fa esplodere l’istante: “Istantaneista, ecco cosa sono”.

E poi la musica, quella sì che è “messaggio diretto al sistema nervoso”; nella musicalità della prosa Céline è veramente un classico perché restituisce la letteratura alle sue origini melodiche, al canto degli aedi. Ma lui è un aedo moderno, di epiche personalissime, e canta su ritmi di tamburi africani e su quelli robotici delle industrie metalmeccaniche, con l’eco continuo delle tempeste d’acciaio dai campi di battaglia.

Il bello è che aveva ragione, è vero che stava nutrendo il futuro della letteratura: un Henry Miller, i Beat e i migliori romanzieri più recenti nel suo amato idioma, Michel Houellebecq e Maurice G. Dantec, hanno eccome debiti con lui, da lui parecchio hanno imparato. Perché molte cose può insegnare questo “istantaneista” che sguazzava nei naufragi, umorista serissimo, satiro che si dichiara ucciso “dalla sola ombra di un blabla”. Troppo prudenti e puliti anche se immersi nel buio del blabla, cogliamo almeno il suo invito ad esser “più verticali e decenti”.

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Luca Negri

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