Torino. Se il Salone del libro (con poche idee) si rifugia nel “famolo strano”

Verdone nel film del "famolo strano"
Verdone nel film del “famolo strano”

Accadde a Torino. Per fare pubblico – cioè cassa –, l’organizzazione del Salone del Libro si è inventata gli incontri con l’autore in mongolfiera, il “famolo strano” di chi, in mancanza evidentemente di adeguato partner, si consola con la lettura. Non bastavano i cuochi del recente evento milanese, che si inventavano piatti futuribili da abbinare alle pagine più succulente del nostro insipido panorama letterario. Non bastavano cantanti e pornostar. Non bastava aver seppellito il silenzio dei monaci amanuensi medievali in un chiasso ormai pluridecennale di reading in piazze, calli e teatri. Non basta la tristezza del numero di lettori che cala, cala, cala mano a mano che le mongolfiere salgono su su su. L’industria culturale italiana resiste sulle sue posizioni con la stessa disgustosa ostinazione degli insetti che, schiacciati, hanno sempre un’antennina che vibra ancora, una zampetta moribonda che vorrebbe continuare ad arrampicarsi sulla briciola di pane. Si involgarisce e ingaglioffisce ormai senza neppure residui vaghi di pudore, impastando l’eterno usurato mix di sesso e violenza, malattia e menzogna. Tra qualche zufolata che si vorrebbe rassicurante e qualche buon esito stilistico che mal si accompagna a storie indegne di scritture tanto riuscite. Più che un Salone del Libro, un obitorio. Al massimo, un ospedale. Si salvi chi può – e soprattutto chi merita.

Ma come salvarsi? C’è una cura per questo morbo dalla vascolarizzazione sempre più ricca e ramificata (le nuove tecnologie! le nuove tecnologie!…)? Ho l’impressione che per l’opera letteraria di significato valga la regola aurea dell’eroismo fissata dall’Hagakure e ribadita da Mishima: il “pazzo morire”. Cioè slanciarsi verso il punto più vivo della fiamma, dove vengono meno le morali ideologiche drogate di contingenza; verso l’apice dell’agone, corteggiarlo, il rischio, dov’è più violento – ed è il modo per uscire vivi dal tappeto di cadaveri che fa da sipario a ogni battaglia. Ma vivi davvero: con la fierezza, l’altezza, la libertà sublime di chi non bada a lusinghe da poco.

Solo così riavremmo romanzi immensi perché inesauribili, qualche costellazione di parole perfette, baleni di intelligenza piena di coraggio e rettitudine. Opere monumentali: i dialoghi di Platone, la Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca, stratificate e solide e grandiose come per un accumulo geologico di significati. Ma corteggiare il rischio non vuol dire flirtare con lo scandalo, eccitare bassi pruriti, contestare la categoria della bellezza. Vuol dire cercare storie che non siano un guardarsi allo specchio dell’autore appena alzato dal letto dopo una sbornia, dell’autore che conta i peluzzi sul suo neo, i nuovi capelli grigi sopra le tempie, che cammina sul filo di una ruga di vizio o scontentezza appena segnata. Impedire alle parole di canticchiare filastrocche buone solo per sterili momenti di ipnosi.

“Pazzo morire” significa fare spazio intorno a sé per poter guardare (anzi: vedere) e ascoltare, allontanando il mondo. E, cacciato il mondo, tirarsi da parte. Che resti solo, puro, silenzioso, netto, geometrico, immutabile e tremante come per una commozione senza confini, il firmamento delle Idee.

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Anna K. Valerio

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