Diari Artefatti/2. Con i re di cartongesso tra le rovine hippy, benvenuti in Spagna

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Mi lascio alle spalle il bucolico Chemin d’Arlés, sono dall’altro lato dei Pirenei e scendo finalmente in Spagna. Sensazione di vecchi confini, tra dogane in abbandono, file di tir e guardrail da scavalcare. Cibo confezionato ad un distributore di benzina. Jaca è la prossima tappa, che raggiungo seguendo un ruscello a valle tra i monti. A metà strada mi tolgo i pesanti scarponi e immergo i piedi martoriati dai sassi in acqua cristallina, freddissima, nei pressi di una pieve romanica. Libertà, attorno solo natura. Cerco di pensare il meno possibile, penso di non pensare. Altri pellegrini? Nemmeno l’ombra, quelli che mi passano, perfettamente equipaggiati in attillate tutine catarifrangenti, sembrano piuttosto atleti. Chiedo a un tale, gioviale spagnolo, mi risponde che è diretto a Pamplona, questa è la sua vacanza podistica, lontano dalle seccature di moglie e figli. Gente che viaggia veloce, gente che mi scruta con scetticismo (“questo non arriverà mai”).

Dopo una settimana di pasti arrangiati, decido di mettermi ben seduto in quel di Jaca, cittadina graziosa dal signorile centro storico. Filetto e vino rosso in enoteca, ma continuo a parlare francese e questo non sembra il miglior biglietto da visita. Il giorno seguente sono ad Arres, con una comitiva di tedeschi in ciabattoni corazzati d’ordinanza; hanno magheggi tecnologici, equipaggi di lusso, mentre io ancora viaggio con i fogli che mi diede il prete di Asson. il borgo posto su un’altura, è abitato da trenta persone, compresi i bravissimi volontari dell’ostello. Case di pietra o quello che ne resta, una chiesa visitabile, torre di guardia, gatti randagi per le strette vie. Si mangia insieme, astuzie per la ricarica dei telefoni, c’è una sola presa da dividere. Di notte c’è uno, tra i letti a castello ammassati, che russa, sarò io? Paranoie e ricordi del servizio militare. L’avanzamento lento in Aragona e quindi in Navarra è duro, ma perfettamente segnalato. Proseguendo su un altipiano, in lungo rettilineo senz’anima viva, scorgo una sagoma procedere in direzione opposta, temo quindi di aver perso la rotta; l’uomo si avvicina, riconosco che è un pellegrino perché porta appesa allo zaino una bandiera con la conchiglia. Ci incrociamo, dopo i saluti mi rassicura: sono sulla strada giusta, lui è diretto a Roma e quindi a Gerusalemme. Mete diverse, forse arriverà per Natale. Siamo a giugno.

Covi di comunisti indipendentisti, i piccoli centri che incontro sul cammino aragonese somigliano a santuari del vecchio Fronte Popolare versione riadattata no-global, con tutti quegli ammennicoli veteromarxisti e giovani dai capelli rasta. Entro in un villaggio abbandonato, solo rovine d’antiche vestigia, c’è una comitiva d’hippy che gestisce un mezzo rudere, procedo oltre. Niente bar, solo fumose cambuse antagoniste, dove vige una certa diffidenza per il pellegrino; “cazzi loro”, sintetizzo tra me, per spirito di sopravvivenza: una menata didattica su Dolores Ibarruri, ora non la potrei reggere. Finite le scorte di Davidoff, m’arrangio con Lucky Strike ai distributori automatici. Schifo, ma meglio dell’astinenza. Al terzo giorno in Spagna, giunge il momento più difficile: confortato da una forma fisica discreta, mi avventuro per un sentiero boschivo, finendo poi dinnanzi ad una barriera in metallo con divieto d’ingresso; risolvo con deviazione-fantasia, scendendo verso una tangenziale deserta, tutta in salita, lingua di cemento interminabile, rovente sotto il sole a picco. Nulla ai lati a parte arbusti, scorte d’acqua finite, solo uno sforzo immane per far seguire un passo all’altro. Prostrazione, nessuno nei paraggi. Stringo i denti e finalmente giungo in un luogo orribile, ostello già saturo con famigliola italiana. Qui scrocco una doccia senza farmi notare, fotto due bottiglie d’acqua dal frigobar comune, quindi riparto in direzione Monreal. Strada infinita, timore di trovare chiuso visto che è già sera, il sole batte forte finché non cala finalmente dietro una collina. Giunto in paese, dopo 58 Km totali, trovo la porta dell’albergue aperta e un’atmosfera di festa nell’aria. Santo patrono, birra per tutti, anche per me che pensavo proprio di non farcela oggi.

Questi giganti di cartongesso in processione, raffiguranti re e regine messi su portantine, mi lasciano sbalordito. C’è la banda che suona, una musica stupenda, coinvolgente, tutto il paese è festante, si finisce dentro al vortice. Giovani, vecchi, bimbi, donne vestite come ai matrimoni, palloncini e fuochi d’artificio. Ma non c’è tempo per affezionarsi, ogni giorno sono in un posto diverso. Cambia lentamente il paesaggio attorno – i boschi si diradano, muta il clima facendosi più caldo – così come l’essenza stessa del Cammino, da eremitaggio solitario a esperienza condivisa. Faccio in tempo a scovare, procedendo in un tunnel di vegetazione, l’Iglesia de Santa María de Eunate, prezioso edificio a pianta ottagonale, già presidio di templari. Sosto a lungo qui, appoggiando la schiena su quelle antiche pietre. Scrivo segrete parole su un foglietto, lo infilo nel vuoto guscio di una chiocciola, quindi la deposito in una fessura. Sono passato di qui e questo luogo è entrato in me. Raggiungo facilmente Puente la Reina, dove le mie piccole abitudine solitarie incrociano la rotta di molti altri pellegrini. Cambia tutto, di nuovo. Il mio tragitto incrocia fatalmente quello del più battuto Cammino Francese. Giapponesi, coreani, americani, italiani, tedeschi, francesi, russi… dopo la fatica, riuscirò a sopportare la gente? O meglio: dopo dieci giorni di solitudine, saprò farmi sopportare?

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Per leggere la prima parte, clicca qui.

Donato Novellini

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