Ballottaggi. Perché la vittoria del centrodestra non resti un voto di protesta anti Pd

renziIl potere logora. Altroché. Il partito democratico esce con le ossa rotte dal turno di ballottaggi, bissando la tradizione perdente nei duelli elettorali inaugurata dal nuovo corso renziano. Dopo le clamorose bastonate di Roma e Torino un anno fa, il Pd perde pure a Genova e persino a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Ma il potere logora, dicevamo. Anche il M5S che esce ridimensionato dal turno delle amministrative. Esulta il centrodestra che adesso deve raccogliere la sfida più importante: organizzarsi, stabilire le sue priorità. Ovvero, capire cosa vuol fare da grande (leggi, alle prossime elezioni).

Cercare un minimo comune moltiplicatore nazionale per interpretare in maniera uniforme il dato elettorale locale è esercizio arduo, spesso interessato. Contano i candidati, le facce e le loro storie e le dinamiche territoriali. Tuttavia qualcosa di schiettamente politico traspare ed è innegabile.

Rosso stinto, morire democristiani 3.0. 

Il Pd ha deciso di farsi sistema, o meglio, copiando i vecchi Fanfani, cerca di accreditarsi come unico e solo partito delle istituzioni. Unici in grado di governare con dignità e decoro e chiunque li critichi si pone, automaticamente, al di là di una sorta di riedizione farsesca di un arco costituzionale fuori tempo massimo (e giù di nuova retorica antifascista).

Alle urne, nel terzo millennio a guerra fredda archiviata, questo approccio non paga. Nell’uno contro uno, l’elettore medio simpatizza per l’alternativa. Praticamente sempre: da Roma a Genova. E a proposito di Genova e delle altre roccheforti rosse perdute c’è da sottolineare che il processo di democristianizzazione del Pd s’è compiuto sfatando un mito centrale della sinistra: quella delle grandi mobilitazioni elettorali. I comunisti vanno sempre a votare, si diceva. Ebbene con l’astensionismo oltre il 50% e quello che poi s’è trovato nelle urne, si può tranquillamente immaginare che tanti di loro (anche) questa volta se ne siano andati al mare.

Cinque Stelle (quasi) cadenti 

La beffa più grande si chiama Federico Pizzarotti, primo grillino eletto alla guida di un capoluogo, poi scomunicato da Beppe Grillo, quindi rieletto sindaco a furor di popolo a Parma.  Pare essersi afflosciato lo slancio di entusiasmo elettorale, complici anche i flop amministrativi di Roma e Torino. Nei duelli del ballottaggio rimangono (quasi) imbattibili, come a Carrara. Ma il problema è arrivarci fin lì. L’ultimo turno elettorale, però, apre un vulnus che già si conosceva. Là dove conta il radicamento sul territorio, e cioè quando si tratta di strappare voti per il consiglio comunale, i pentastellati arrancano pericolosamente. La sfida autentica del M5S sta tutta qui e ne va della loro stessa esistenza: senza radici solide, rischiano di lasciarsi travolgere e di farsi spazzare via dalle “mode” elettorali.

A destra vincere non sia tabù 

Finalmente si torna a vincere, nel centrodestra. Segno che, per gli elettori, l’asse Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia può rappresentare, almeno nei comuni, un’alternativa valida di governo. A quanto pare, vincere non è più un tabù. Ora, come si direbbe in ambito calcistico, bisogna dare continuità ai risultati. Per farlo è necessario tornare a respirare dai polmoni di realtà, calarsi nelle città, girare per le strade, parlare e ascoltare la gente. E farlo con coraggio, rifuggendo quelle categorie incapacitanti che trasformano in rissoso folklore ogni dialettica politica. L’affidabilità è ciò che deve riguadagnare il centrodestra, archiviare le paturnie autoghettizzanti e ritrovare il coraggio di sporcarsi le mani con il mondo reale. Capire quello che la destra diffusa nel Paese cerca, una “liberazione” dalla paura, da ogni timore. Altrimenti, l’ultima vittoria dovrà essere letta nell’unica altra chiave possibile: quella di un voto di protesta nei confronti del Pd.

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Giovanni Vasso

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