58 giorni. 24 maggio 1992, la gente di Palermo urla: “Lo Stato non è innocente”

corriere20della20sera24 maggio 1992: alla Sicilia toccano il lutto e la rabbia, mentre Roma sono ore di paura. Paura di perdere il controllo, il potere; paura che cambi tutto, che tutto vada in fumo come a Capaci. Cosa successe a Palermo è cronaca. È quello che successe a Roma, nel Palazzo, che andrebbe raccontato per filo e per segno: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica è un passaggio fondamentale per capire quali equilibri – politici e non solo – si cercarono di creare nel Paese.

La cronaca, dicevamo. Scrive il Corriere della Sera, a firma Marzio Breda: «Tremila persone immobili sotto il sole, che quando parlano lo fanno soltanto sottovoce. Macchine di servizio che vanno e vengono, e scivolano come in un rallenty, con i motori al minimo e senza accendere mai le sirene. Elicotteri che volteggiano in cerchio ma, assurdamente, senza produr rumore, quasi che fossero tenuti su dallo scirocco che spira dal mare. Per due lunghissime ore piazza Vittorio Emanuele Orlando segna con il silenzio il lutto della Sicilia. Un silenzio carico di tutta l’ angoscia di questa comunità, di nuovo tramortita e umiliata dopo il delitto Falcone.

Ma anche un silenzio che lascia presentire la rivolta imminente. Che esplode alle 12.45, quando cinque carri funebri si fermano davanti al Palazzo di giustizia e le tremila persone cominciano ad applaudire. Sì, perché, per quanto possa sembrare paradossale, il battimani che rende onore a Giovanni Falcone costretto a fuggire proprio da questo tribunale, a sua moglie e ai tre poliziotti assassinati con lui, ha un timbro rabbioso e persino eversivo. Un colonnello dei Carabinieri, incaricato di governare la sfilata di autorità e gente comune, lo intuisce subito. Si affanna a far serrare i ranghi dei suoi uomini, a sistemare barriere, ad allontanare i reporter, a telefonare in prefettura dove e’ in corso un vertice dei Grandi Papaveri, perché “è meglio ritardare, ritardare più che si può” l’ arrivo alla camera ardente.

Sforzi inutili, che non evitano al capo dello Stato pro tempore di sentirsi accogliere da un coro di “via,via”, “tornatene a Roma”. Ai ministri Martelli e Scotti di vedersi cadere ai piedi una pioggia di monetine e sentirsi correr dietro da urla di dileggio. A Galloni, Spini, Mattarella, De Luca di condividere con loro insulti tremendi: “Assassini, ladri, sciacalli”. Chi se la vede più brutta, e addirittura è minacciato fisicamente, è il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Galloni. Giunge per primo, verso l’ una, e un agente in borghese, di quelli del servizio scorte, tenta di aggredirlo. (…)  “Il cuore della nazione batte con la Sicilia”, recita un comunicato distribuito ai cronisti dallo staff del Quirinale e destinato a parlare per Spadolini».

Anche dalla piazza il segnale che giunge a Roma è chiaro, non servono processi; è il cuore della Sicilia che parla, che sa: lo Stato non è innocente. Dentro il Palazzo di Giustizia, adibito a camera ardente, Paolo Borsellino parla ai suoi colleghi, e davanti la bara dell’amico Giovanni dice: «Chi vuole andare via da questa Procura se ne vada. Ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende. Il nostro futuro è quello. Quello lì».

Giovanni Marinetti

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