Cultura (di P. Isotta). L’etica e la lezione di Tito Livio nel bimillenario dalla morte

tito livioI formidabili bimillenarî  del 2017 sono due, non uno. Nel 17, dunque otto anni dopo Augusto, morì Tito Livio. La tradizione lo vuole nato, a Padova ove finì i suoi giorni, nel 59 a. Ch.: Ronald Syme e altri ne antedatano la nascita al 64. Anche se fosse vissuto ottantun anni, la mole della sua opera è tale da render a malapena credibile che un uomo l’abbia compiuta nell’arco di una vita.

   I libri ab urbe condita del sommo patavino erano centoquarantadue e giungevano, appunto, agli ultimi tempi del principato di Ottaviano. Oggi ne possediamo a stento un quarto, giacché quel che di Livio sopravvive giunge fino al trionfo di Paolo Emilio su Perseo di Macedonia, del 167 a. Ch: ossia al  quarantacinquesimo; ma i libri a noi pervenuti sono in tutto quaranta, essendovi la lacuna dei cinque dall’undecimo al quindicesimo.  La perdita di tre quarti di ab urbe condita, avvenuta, a quel che sembra, dopo il sesto secolo, incipiendo il Medio Evo, è uno dei disastri della cultura. Disastro irreparabile, giacché tutte le emersioni miracolose avvenute dalla Rinascenza in poi, e in ispecie dall’Ottocento, non toccano lo storico: sono stati trovati Lucrezio e Cicerone e Filodemo, i rotoli del Mar Morto e i papiri di Ossirinco, ma la sorte su di lui s’è accanita.  E, a differenza di Lucrezio, non è da credersi che la causa sia in una censura attuata dalla Chiesa: pur seguace attento della religione tradizionale, Livio predica un’ etica di frugalità, senso dello Stato e severità di costumi che la nuova Roma doveva accettare.  Chi, durante l’autunno del Medio Evo, più piange la scomparsa del Patavino e più si adopera per reinserire nella vita culturale quel che di lui sopravvive, non è solo uno dei più grandi poeti mai vissuti, sì anche uno dei più grandi uomini di cultura, Francesco Petrarca. E il poema storico latino da Francesco dedicato alla seconda guerra punica, l’Africa, per il quale io ho un vero culto, su Livio è modellato.

   Nei quaranta libri in nostro possesso Livio si effonde con “lactea ubertas” (Quintiliano: “ricchezza come se scorresse latte”) sull’epoca regia e soprattutto repubblicana. Dalle origini sino a quando Roma diviene uno stato imperialistico costretto dalle sue conquiste a esser impero planetario. Non v’è facile teleologia nella sua pagina, ma la concentrazione sullo Stato, il senso del dovere di quei contadini-soldati della prisca Repubblica, l’intelligenza verso i popoli sconfitti,  sono narrati in modo così plastico da far apparire come una necessaria conseguenza ciò che dopo accade.

   Livio che non erra, dice Dante. Il più grande fra gli storici di Roma, Gaetano De Sanctis, gli dedica una memorabile “voce” sull’Enciclopedia Italiana ma, solo in questo erede di una scuola superata, non accetta il suo racconto sul passaggio dalla monarchia allo stato repubblicano.  Oggi sappiamo che la transizione, traumatica, avvenne proprio come  vuole Livio; e le scoperte archeologiche, per esempio quelle del Palatino, sempre più ne rivelano la veridicità. Al tempo stesso Livio, narrando, t’incanta: non per nulla venne paragonato non a Polibio, a Erodoto. Dal punto di vista dello stile, sia Sallustio che il sommo Tacito gli sono superiori e risultano più attraenti; Tacito esercita su chi legge una vera ipnosi. Ma sono storici di parte: sovente errano, e di proposito.

Proposta per un’estate felice: leggere i quaranta libri!

 

*Da Il Fatto Quotidiano

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Paolo Isotta*

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