Musica. Il nuovo rock italiano: Edda. Graziosa Utopia

<<Nessuna musica di grande compositore può avere effetti psicologici così forti e teneri quanto, a volte, la più povera delle canzoni, se c’è la voce, la casa, la strada>> diceva Guido Ceronetti. In questo caso la voce non manca di certo e non manca nemmeno l’artista. Stefano Rampoldi, in arte Edda. È capace di snocciolare perle di saggezza con eddauna semplicità disarmante, quando è di buon umore, ed è altrettanto capace di usare un linguaggio politicamente scorretto da far impallidire Bukowski quando non lo è. Quando cantava con i Ritmo Tribale diceva: “se mi vuoi capire bene/se no muori” (Cit. Stato di Rovina). Dopo aver cavalcato l’onda del rock underground suonato nella Milano degli anni novanta, qualche anno nel buio esistenziale, ha ripreso a fare musica, scoprendo l’inclinazione che gli è più congeniale, quella di cantautore. Edda vuole capire e far capire chi è, vuole comunicare il suo rapporto con un mondo sempre più aggrovigliato da rapporti pungenti e nell’ultimo album lo ha fatto egregiamente. La musica gli serve per radiografare i turbinii che bussano da dentro e così la asseconda. Ha tante idee, un discreto fiuto per le sperimentazioni e decine e decine di canzoni in cantiere che decide di suddividere, poco per volta, negli album che sforna a cadenza quasi biennale. Stefano Edda Rampoldi trova il suo equilibrio in vari modi. Recitando i mantra Hare Krisna cerca armonia, ringrazia e chiede gentilmente di non cadere di nuovo nel circolo della reincarnazione. E nel frattempo fa anche musica. Suona  una chitarra leggermente meno sporca ma non meno energica rispetto a quella usata nei precedenti lavori, volteggia nell’orbita degli hertz con una voce che viene dalle profondità di un’anima inquieta e sconquassata, e con la  regala al pubblico Graziosa Utopia (prodotto da Woodworm), un concentrato di canzoni che parlano di vita quotidiana, dell’insoddisfazione di non sentirsi mai a posto, nel vuoto di un tempo scandito da ritmi strani, l’amore visto come un puzzle che non si riesce a comporre, perennemente fragile, lontano dall’enfasi, lontano dalla retorica. Un disco sulla vita, che mischia suono elettrico, acustico e rumorismo (tipico dei contributi del geniale Sebastiano de Gennaro, ora musicista di Daniele Silvestri), dirigendo uno sguardo di nostalgia alla melodia italiana dei sessanta/settanta. In un mondo che ama le classificazioni, la produzione di Edda sarebbe da confinare nel mondo della musica indipendente. In realtà si può tranquillamente considerare rock puro in assenza di strane e bislacche remore secondo cui la perfezione tecnica equivale ad un suono pulito. Edda snocciola sé stesso e la realtà che lo circonda in maniera diretta e schietta, assestando colpi davanti al microfono, comunicando un’urgenza espressiva che lo pone distante rispetto a qualsiasi ruolo, superando le strategie che vorrebbero ridurre la musica ad un esercizio di stile, formale e vuoto. Edda parla di sé, ed è già fin che mai, conosce le sue profondità e le snoda di canzone in canzone, componendo un quadro astratto, surreale ma denso di vita e di emozione.

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Stefano Sacchetti

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