Cinema. C’era una volta: quando la commedia all’italiana parlava di mafia. Il Mafioso (1962) con Alberto Sordi

Il cinema ha parlato svariate volte di mafia, in maniera encomiabile e con toni di denuncia. Non era scontato che lo facesse però all’inizio degli anni sessanta, perché tolti celebri esempi appartenenti al panorama d’autore come Un Uomo da bruciare dei fratelli Taviani e Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, la commedia all’italiana ne parlava in maniera sporadica.

Parlare di mafia sembra facile, tanto quanto sembra facile parlare di argomenti di senso comune. C’è infatti un senso comune, a livello culturale, che porta a ragionare sul fenomeno mafioso in maniera retorica. Frasi come “una volta avevano un codice” hanno battuto il palato tamburellante di molti discorsi, non solo nei bar.

Il cinema, secondo la scuola di pensiero neorealista, si fa interprete dell’evoluzione dei fenomeni che permeano la società in tutti i suoi meandri. Nonostante il neorealismo abbia esaurito la sua spinta di denuncia sociale all’inizio degli anni cinquanta con i Vitelloni di Federico Fellini, anche il genere della commedia con i suoi protagonisti ha reso il suo servizio per capire la struttura (oltre che la genesi) di certi fenomeni.

Il regista Alberto Lattuada,  uomo di straordinaria sensibilità con una smisurata passione per la natura (aneddoto rivelato da Renato Pozzetto in un’intervista), realizza un piccolo capolavoro, intersecando il genere della commedia a quello della denuncia sociale, colorando il cinema dell’impegno con la parodia della commedia senza cadere nello sberleffo. Si tratta de Il Mafioso (1962), con un magistrale Alberto Sordi che interpreta il ruolo di un siciliano emigrato a Milano, Antonio Badalamenti, impeccabile caposquadra in un’industria meccanica lombarda perfettamente integrato con una moglie milanese doc e due figlie.

Gli stereotipi sono marcati, ma utili ad enfatizzare svariati elementi, come la sicilianità ostentata e mal digerita, il familismo amorale ben ritratto anche da Pietro Germi in Divorzio all’Italiana, la subcultura mafiosa parecchi anni prima della Piovra. Si tratta di un film di nicchia, con un Sordi di maniera ma altrettanto efficace nel trasmettere, con un linguaggio caricaturale, una figura resa prototipo di un comportamento che nei decenni successivi sarebbe diventato materia giudiziaria, investendo di rimando anche la sfera sociale, culturale, economica e politica. Un gioiello che interseca denuncia e umorismo, la vera lezione della vera commedia all’italiana, un genere specchio della società, in una miscela propulsiva di denuncia e umorismo.

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Stefano Sacchetti

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