Storia. La lunga vita (controversa) degli usi civici nelle comunità italiane

agricoltoreEsiste un altro modo di possedere la terra, che va al di là della proprietà pubblica o privata. Lo possiamo definire una commistione di diritti, perché una terra può essere privata, ma la si può sfruttare collettivamente. Dobbiamo stare attenti però a non confonderlo con il demanio pubblico: questo infatti può essere chiuso a qualsiasi utilizzo comunitario. Carlo Cattaneo affermò a riguardo che “questi non sono abusi, non sono privilegi, non sono usurpazioni: è un altro modo di possedere, un’altra legislazione, un altro ordine sociale, che, inosservato, discese da remotissimi secoli sino a noi”. Il patriota italiano si riferiva agli usi civici, ovvero all’insieme di diritti per il godimento collettivo di un terreno privato o pubblico. E’ un prodotto originale della millenaria storia italiana, il cui diritto è foriero di istituzioni antiche, alternative e, perché no, risolutive di problemi del presente.

 

Uso civico e proprietà collettiva

 

Partiamo da un chiarimento: uso civico e proprietà collettiva sono concetti differenti. Il primo indica l’insieme dei diritti che si possono esercitare per lo sfruttamento comunitario della terra (semina, raccolta legna…), mentre il secondo un bene comune, accessibile a tutti. Il diritto moderno non riconosce la proprietà collettiva e questo statuto giuridico viene conservato applicandovi l’uso civico. Da ciò nasce la consueta confusione terminologica.

 

Un diritto che viene dal Medioevo

 

Il medioevo feudale era sì duro ma aveva sviluppato forme di sussistenza e di coalizione sociale che prevennero per secoli aspre lotte. La consuetudine voleva che il feudatario concedesse ai propri sudditi alcune aree dei propri possedimenti da sfruttare produttivamente. In questo modo il signore garantiva la sopravvivenza dei sudditi e una loro relativa autonomia. Le terre erano sfruttare dai contadini e ciascuno prendeva in base ai propri bisogni: la comunità si autogestivano in modo tale da non esaurire le risorse naturali. Che fossero boschi o terreni agricoli, si agiva affinché fosse preservata la fertilità. Nel Mezzogiorno, soprattutto, ma anche nel Nord Italia, la popolazione godette del diritto di uso civico (nel caso di terre concesse da feudatari o da istituti religiosi) o dell’usufrutto delle proprietà collettive.

 

Una spina nel fianco per la modernità

 

Nel 1806 ebbe fine l’età feudale. Le consuetudini dell’Antico Regime dovettero fare i conti con un sistema giuridico e sociale totalmente diverso. L’economia di mercato, il capitalismo e la logica del profitto, che innalza a totem la proprietà privata, mal tollerava la presenza di una gestione collettiva delle terre. Soprattutto all’indomani dell’Unità d’Italia si avvertì la necessità di sistemare il demanio territoriale nazionale, cercando di normare l’uso collettivo dei beni naturali, limitandolo purtroppo. In questo modo le antiche terre feudali, un tempo sfruttate liberamente dai sudditi, si ritrovarono in mano ai nuovi potentati, causando non pochi conflitti sociali.

 

La legge liquidatoria del 1927 e le Università Agrarie

 

Si giunse così alla liquidazione del demanio collettivo. Con la legge del 16 giugno 1927, numero 1766, si diede disposizioni per dismettere, se possibile, il patrimonio collettivo. Venne distinto l’uso civico, da provare con un accertamento (dimostrare con prove e documenti l’uso continuo della terra da parte di una comunità), dalle proprietà collettive, che furono progressivamente ridimensionate. Nel caso in cui non si fosse provato l’esistenza dell’uso civico, le terre sarebbero ritornare di proprietà dello Stato o del privato cittadino. I comuni italiani videro ridotto drasticamente il proprio demanio civico e, in base alla legge 397 del 4 agosto 1894, le proprietà collettive sopravvissute furono poste sotto la supervisione delle Università Agrarie, entità associative preposte alla cura e alla gestione del territorio della comunità.

 

Questo breve excursus sull’uso civico e sulle proprietà collettive ci è servito per presentare un modo antico, ma moderno di gestire la terra. La proprietà privata è legittima, ma altrettanto lecito dare sfogo all’esigenza di comunità degli uomini. In questo modo si responsabilizzano i cittadini sulla preservazione delle risorse naturali, a tutto vantaggio del benessere della natura. Ci sono risorse naturale indispensabili per la sopravvivenza della popolazione, il cui appalto a privati potrebbe dimostrarsi lesivo per tutti.

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Alfredo Incollingo

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