Libri. “Nero Tav” l’ultimo libro di Giorgio Ballario, noir tra rabbia e amore in Val Susa

“Nero Tav” e’ l’ultimo romanzo di Giorgio Ballario, scrittore e giornalista della Stampa. L’autore racconta così la sua ultima opera: “Nero Tav” non è però un libro politico né militante, non è un’opera di divulgazione scientifica e neppure un resoconto giornalistico su un tema che da anni sta scaldando gli animi, in Val Susa ma anche a Torino e a Roma. “Nero Tav” è un’opera di fantasia, più precisamente un romanzo noir, che si muove all’interno di una cornice di fatti ed episodi reali e realistici.. E’ il primo romanzo ad affrontare senza timori né censure il tema del Treno ad Alta Velocità (TAV) e della lunga battaglia che un’intera valle, insieme a un certo numero di gruppi politici e sociali, sta sostenendo contro una maxi-opera molto discussa e sicuramente molto costosa”.

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Ecco un estratto di “Nero Tav”.

(…)  Sulla statale 24 c’era poco traffico e attraverso il parabrezza bagnato vedevo scorrere le immagini dei piccoli paesi, adagiati in fila lungo la strada di fondovalle: casette modeste, vecchi condomini degli anni Settanta, scuole in cemento armato, capannoni e fabbriche che avevano vissuto giorni migliori. Ogni tanto una bandiera No Tav faceva capolino da un balcone o da una finestra. Drappi ingrigiti, stinti, ormai logori per la battaglia che da anni contrapponeva le genti della Valle alle autorità politiche, pronte a tutto pur di veder sfrecciare un super treno tra quelle montagne spoglie e spelacchiate.

Non capivo tutta quella smania di progresso e velocità a suon di miliardi di euro, ma neppure la testarda resistenza dei valligiani a qualsiasi innovazione tecnologica, che oltretutto avrebbe portato ingenti investimenti nella loro zona. Mi guardai attorno. Tanto quel buco stretto fra le montagne non era mica la valle di Heidi! Non c’erano prati, boschi di larici, né alpeggi baciati dal sole o malghe da pubblicità dell’Alto Adige. La bassa Val Susa era solo un paio di chilometri di terra piatta incanalata tra le rive scoscese dei monti, nei quali il buon Dio e la mano dell’uomo s’erano divertiti ad affiancare, l’uno a poche decine di metri dagli altri, l’alveo del torrente Dora, le strade statali 24 e 25, la vecchia ferrovia ottocentesca e la più recente autostrada Torino-Bardonecchia, che arrivava fino in Francia attraverso il traforo del Fréjus. Acqua, binari e strisce d’asfalto che avevano confinato gli insediamenti umani alle pendici delle montagne, in brutti paesotti poco soleggiati dai quali veniva voglia di scappar via.

Forse era per quello che la gente non voleva un’altra colata di cemento. Un’altra barriera artificiale a dividere in due una valle nella quale tutti passavano il più in fretta possibile, senza mai fermarsi. Era stato così fin dai tempi di Annibale, e poi di Carlo Magno: la Val Susa serviva come porta d’accesso all’Italia. Soprattutto agli eserciti stranieri, che da lì scendevano le Alpi, spogliavano, rubavano, stupravano, ammazzavano e poi tiravano dritto. Me l’aveva detto il mio amico Marchesini, che è giornalista e di queste cose storiche ne sa un bel po’. (…)

 

(…) Gran parte dei manifestanti s’era coperta come se avesse dovuto recarsi su una pista da sci: giacche a vento, pantaloni pesanti, guanti, berretti di lana. E ai piedi scarponi da montagna con calza termica doppia. Ma c’erano pure decine di montanari che esibivano serenamente i giacconi slacciati e le camicie a scacchi aperte fino al terzo bottone, ridendo e scherzando come se fossero a prender l’aperitivo sul lungomare di Alassio. A giudicare dalle gote infiammate e dall’eloquio sciolto, di aperitivi ne avevano già buttati giù parecchi. E non si trattava di crodini né di bibite analcoliche.

Più in là, verso l’inizio del corteo, bivaccavano un centinaio di ceffi con l’aria degli “alternativi”: scarponi neri, un paio di creste punk in ritardo di una trentina d’anni sulla storia, altri con capelli lunghi o rasati quasi a zero, piercing e tatuaggi come se piovesse. Bevevano birra e ascoltavano la musica spaccatimpani che fuoriusciva da un paio di grossi altoparlanti sistemati su un furgoncino scassato. I valligiani li guardavano con occhi indulgenti, come a dire: «Fanno tanto cinema, ma non sono poi cattivi».

Gli sbirri stavano a mezzo chilometro di distanza con indosso il kit da ordine pubblico: casco con visiera, scudo, sfollagente modello tonfa. Erano un centinaio, tra polizia e carabinieri, oltre a quelli della Digos che si aggiravano in borghese con l’aria furbetta e paracula di chi cerca sempre la mediazione per evitare il peggio. C’erano pure una quindicina di giornalisti, fotografi e operatori televisivi, che pencolavano fra i due gruppi in cerca di commenti e immagini curiose da immortalare. Però si tenevano al largo dal manipolo degli “alternativi”, che li aveva già insultati e minacciati a distanza. (…)

(…) Camminammo per una ventina di minuti, ridendo e scherzando come due ragazzini. Ad un tratto lei mi bloccò contro il tronco di un albero e mi diede un bacio.

-Hector, facciamo l’amore. Qui, adesso.

-Ma dai! C’è gente, ci manca solo che ci becchiamo una denuncia per atti osceni in luogo pubblico.

-Ma no che non c’è nessuno.

-E poi fa freddo, il sottobosco è umido: alla mia sciatica non ci pensi?

Scoppiamo a ridere, abbracciandoci di nuovo. Ma all’improvviso si udì con chiarezza il rumore di un ramo spezzato.

-Ecco, arriva qualcuno – le dissi sottovoce.

Seguì una lunga pausa di silenzio, poi di nuovo il suono di passi nella boscaglia. Ci guardammo attorno, ma lungo il sentiero non scorgemmo nessuno. Strano, pensai. Magari è qualcuno che è uscito dal tracciato  e si è addentrato nel bosco. Un bell’idiota, con quest’oscurità rischia ancora di cadere in una scarpata. Istintivamente mi sentii sul chi vive. Feci cenno a Giuliana di rimanere in silenzio e ruotai lo sguardo a 360 gradi, ma non notai nulla di strano.

-Forse è solo un altro cinghiale – le dissi, sempre a bassa voce.

Un bagliore squarciò il buio, seguito un istante più tardi dal rumore secco di un’esplosione. Trascinai Giuliana per terra, cercando riparo dietro al tronco di un castagno. Sentii sparare altri tre colpi, in rapida sequenza, che si andarono a conficcare nel fusto dell’albero. Tenevo Giuliana sotto il mio corpo e avevo una gran paura. Avrei dato un occhio per avere sotto mano la mia Glock 17, che invece se ne stava placidamente chiusa in un cassetto nella camera da letto di casa mia. Raramente la portavo in giro con me, agli sbirri non piacciono molto gli investigatori privati che giocano a fare Rambo e non mi andava di rischiare la licenza.

-Hector… – sussurrò Giuliana, terrorizzata.

-Shhhh! Zitta, non parlare. E stai ferma.

Rimanemmo immobili per un paio di minuti, con il cuore che ci ballava la rumba in gola. Non riuscivo a capire se il misterioso sparatore se ne fosse andato oppure rimanesse acquattato tra i castagni in attesa di una nostra mossa. (…)

 

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