Artefatti. Nico, l’auto maledizione di una stella cadente nibelunga

La recente uscita del film Nico 1988, presentato nella sezione Orizzonti alla 74° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, consente di riportare alla contemporaneità un personaggio enigmatico, affascinante, controverso, per troppo tempo chiuso in un oscuro culto di nicchia; oppure, retrospettivamente, relegato a certe nostalgie tramandate dai feticisti del disco con la banana, all’esordio musicale per l’appunto titolato The Velvet Underground & Nico. Era il 1967 e lei era bellissima. Onori e civetterie, eterna notorietà per aver prestato la voce a tre pezzi scritti da Lou Reed, passati poi alla storia. Evidente che gli stereotipi agiografici si sprecano, quando si tratta di liquidare con un bignamino tale personaggio, talvolta scadendo in definizioni fumettistiche, tipo Sacerdotessa delle tenebre o il più ammiccante Musa di Andy Warhol. Tutta mitologia ad uso paparazzi, il quarto d’ora di celebrità, presto finito in album di fotografie: “Ari, vedi com’era bella mamma?”. Nico fu la novità, una giovane modella bionda, sottilmente androgina, esotica in quanto appositamente “ariana” nel parco giochi del meticciato anni ’60. Tedesca capitata prima a Roma (attrice ne La dolce vita) e quindi a New York, nel dissoluto reame usa e getta della Factory, statua teutonica e femme fatale per rockstar in fregola: Bob Dylan, Jim Morrison, Brian Jones e chissà quanti altri. Tutti innamorati di lei e tutti abbandoni, con un figlio a carico mai riconosciuto dal padre. Era Alain Delon.

 

Chi fu realmente Christa Päffgen, nata a Colonia nel 1938, potrebbe non essere così importante. Warhol, al solito perfido manovratore, le cucì addosso un’impalpabile veste nazi, ad uso glamour. Capro espiatorio, subdola manovra per nuove perversioni nella Grande Mela. Ma lei se ne accorse e diede presto disdetta. Vagabondò quindi tra spasimanti, prima di decidersi a fare da sola. Difatti questo è un caso emblematico d’auto-sabotaggio, di omissione di carriera, di progressivo esilio dalle copertine patinate. Forse perché intuiva che il suo tempo sotto i riflettori era scaduto, forse per potersi far male in autonomia, senza l’aiuto dei cinici mestieranti del mondo dello spettacolo. L’atto avverso e coraggioso di ripudiare il biondo, ad esempio, per darsi all’oscurità di foreste nibelungiche. L’atto sublime dell’impossibilità, del chiudersi le porte alle spalle. Il film di Susanna Nicchiarelli, interpretato egregiamente da Trine Dyrholm, indugia infatti nel realismo dei retroscena, nella narcotica decadenza di una diva anticonformista, nella sciupata posterità agli anni d’oro, blandendo quel vezzo tutto contemporaneo che porta a privilegiare il lato umano dell’artista. A discapito delle fantasmagorie ad uso media. Basta con le maschere: chi c’era dietro? “Sono ancora bella o non voglio esserlo mai più?” Autolesionismo. Restò bella Nico, anche se cercò in tutti i modi la trascuratezza e il diniego.

Veli neri in piccoli club fumosi, il ritorno all’idioma germanico, l’amicizia con John Cale, le sperimentazioni radicali per pochi fedelissimi. Una manciata di dischi memorabili, splendidi e lontani, come fossero echi di sacerdozi infranti. Poi le imitatrici così agitate, troppi ricordi troppo tardi ormai, una morte a Ibiza per caduta da bicicletta, sotto un sole cocente per paradosso; gli allori postumi, mai troppi per carità. in epoca di falsità totalitaria e di replicanti in botox, che farsene d’una messa così? Viene fuori tutta la consolazione di una celebrità estintasi da sé, defraudata esiliata, che osò abbandonare la festa esclusiva per fare la sua musica; perché poi il popolo morboso vuole sempre sapere, anche quando ignora l’essenziale. Abitudine pusillanime, piegata ai perversi desideri dello spettatore in poltrona, sovente bramoso di sempre nuovo ludibrio. Quanto si gode, nel vedere una stella cadere? Porta fortuna, dicono. “Quando devi scegliere tra la verità e la leggenda, scegli la leggenda”, ecco, così la sentenza di John Ford si ribalta in un coacervo di casi umani, d’iperrealismi, d’addii alle scene, che nel caso di Christa Päffgen prendono la forma d’eremitica indipendenza e di una devastante tossicodipendenza.  La scimmia, si dice così in gergo, forse scappata da Bahnhof Zoo.

 

Simile a un commiato messo in musica, il canto monacale, profondo e austero, di Nico evoca ancora oggi la fiaccola accesa in una gelida notte pagana. Inquieta e talvolta disturba, quel tono ritualistico: boschi e rifugi, attorno solo alberi neri e lupi, lamento che tocca codici ancestrali. Criptico sabba freak, quindi manna avvelenata per neogotici, madrigale da papessa nera per tutti i nichilisti anni ’80. Si intuisce così la pregnanza del doppio significato della parola Eroina, messa in abissi d’inquietudine, in tormenti che retrocedono, svanendo in aurore boreali e sottoscala nauseabondi. Non c’è via di mezzo per l’artista, l’empireo o l’oblio. Eroina bionda perduta, non è più epoca e non ce ne faremo un cruccio, già questa riga – come i dischi fuori moda di Nico – potrebbe essere ignorata dai più, a tutto vantaggio delle foto colorate e dei video pimpanti, come impone la nostra mimica superficiale: sapere un po’ di tutto e sapere un po’ di niente, nel frattempo concionare in luoghi comuni, aborrendo il pestilenziale approfondimento. Al solito s’è cercato di fare il contrario, allontanando il passo dalla tendenza imperante, perché la tomba di Nico merita più rose che “mi piace”.

Donato Novellini

Donato Novellini su Barbadillo.it

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