Storia (di P. Isotta). Perché Roma non perdonò mai a Scipione la sue vittorie

Calco con Vittoria da bassorilievo Ara Pacis
Calco con Vittoria da bassorilievo Ara Pacis

Gastone Breccia è uno storico militare. Tuttavia il suo recentissimo Scipione, pubblicato dalla Salerno nella collana diretta da Giuseppe Galasso (pp. 349, euro 21) non è solo un libro di storia militare. Nella ricostruzione della parte avuta dal sommo condottiero nella fine di quel cancro chiamato seconda guerra punica egli apporta una sintesi efficace e aggiornata che si affianca degnamente a quella,  insuperata, di Gaetano De Sanctis nella Storia dei romani; e forse la sua spiegazione tecnica, chiara e minuziosa, della tattica e della strategia di Annibale e dell’Africano nel fronteggiarsi da titani, è ancor più utile di quella dello storico novecentesco: almeno per il lettore attuale, essendo il suo linguaggio meno dotto e più piano. Ma questa biografia dell’Africano è, sempre per il lettore attuale, rivelatrice  nella sua capacità di mostrare che Scipione non è un soldato e basta, ma un politico con una visione  profonda e lungimirante della storia e della politica, il quale comprende che la guerra è l’unica via per  attuare la sua visione politica: la guerra, s’intende, com’egli la concepisce; e il condottiero è un tutt’uno col politico.

   Questo spiega l’odio che Publio Cornelio raccoglieva, sin dal primo consolato, presso la classe senatoria. A lei serviva un soldato che combattesse secondo la sua linea politica. Scipione è avversato sia da Quinto Fabio Massimo che da un homo novus come Catone, e da questo in modo acerrimo e odioso. La necessità, intesa da Scipione, che il conflitto con Cartagine trasformasse Roma da potenza italica in potenza mediterranea e, in sostanza, imperiale, non era condivisa, sebbene la nobilitas senatoria (patrizio-plebea, non dimentichiamolo) finisse col giovarsene. Per tutta la vita si accusò Publio Cornelio, surrettiziamente o apertamente, di affectatio regni, ossia di aspirare a esser Re: la peggiore accusa che a un romano potesse rivolgersi. Ma l’Impero era ineluttabile; sebbene conduca anche alla tirannide.

   Quando Annibale era in Italia, la Repubblica si era dissanguata ma era riuscita a renderlo una malattia cronica, di quelle alle quali ci si adatta. Arriva un giovane di una delle più antiche gentes, circondato presso il popolo da una sorta di nimbo sacrale come caro agli Dei, e propone di cacciare Annibale portando la guerra in Africa. L’aristocrazia preferiva tenersi Annibale piuttosto che sconfiggerlo grazie a Scipione. Semplifico quasi demagogicamente: ma questa è la storia che porta alla battaglia di Zama. Scipione era già riuscito a togliere quasi del tutto a Cartagine la penisola iberica; la seconda vittoria non gli venne perdonata.

   Per il lettore che conosce Scipione solo per la guerra con Annibale, la ben ampia parte successiva della biografia di Breccia è ancor più interessante. Gli si dimidiò la vittoria; lo si sfiancò da un punto di vista politico e militare. L’ineluttabilità dell’Impero aveva fatto comprendere a Scipione che Roma dovesse espandersi a Oriente, e  combattere i Seleucidi. Non gli attribuirono  il comando, e comunque gli sabotarono la guerra; indi gli negarono d’averla vinta; e lo accusarono di malversazioni. Morì, ancor giovane, in esilio. La sistemazione dell’Oriente sarebbe stata attuata da Silla e da Pompeo. Il primo aveva come soprannome felix,  caro agli Dei; il secondo magnus, il grande, che Scipione non portò.  Sintomi di un principato  di fatto. Silla depose la dittatura e tornò a casa a piedi; e Pompeo morì miseramente perché il politico non aveva la risolutezza del soldato. Il vero erede di Scipione fu Cesare.

*Da Il Fatto Quotidiano

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Paolo Isotta*

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