Il commento (di P. Buttafuoco). Le liste del Pd e la sublimazione della leccocrazia

Matteo Renzi. segretario Pd
Matteo Renzi. segretario Pd

Altro che meritocrazia, è la leccocrazia.
E solo adesso s’è capito che cosa, Matteo Renzi – leader del Partito democratico – è riuscito a rottamare a casa sua: la politica.
La prova fedeltà sopravanza la libertà. Alla luce delle sceneggiate viste, al netto della mattanza dell’opposizione portata a termine nella notte del Nazareno, la libertà, e cioè quel primo requisito richiesto già dai tempi di Aristotele, in punto di concretezza è abrogato.
L’indipendenza di donne uomini chiamati ad aggregarsi qualunque sia il partito, il movimento o cartello elettorale – nell’amorevole sussiego dei commentatori rispettabili – è, di fatto, sorvolato. Fatto scivolare per non scaldare troppo il disbrigo elettorale.
Più che un partito, infatti, il Partito democratico che Renzi consegna al giudizio degli elettori è un branco; con lui stesso nel ruolo di Elemento Alfa, e con gli altri al suo seguito, tutti chiamati a stargli dietro, col muso appiccicato a pelo della sua stessa coda di Capo.
Il luogo dove stanno tutti, la polis, è diventato un posto per uomo solo al comando.
Una condizione a tal punto innaturale, quella dell’assolutismo, che neppure il Papa – pur aiutato dallo Spirito Santo – riesce ad avere coi propri cardinali, e però è uno status che la compilazione delle liste elettorali in gara per il 4 marzo prossimo, seppure nella forma della caricatura, conclama.
Ed è una conferma più che sfacciata – questa della leccocrazia – quando i candidati, ancorché miracolati per avere avuto un posto dal Capo, annullano quell’idea stessa della pluralità, delle competenze, delle idee e anche quella dei conflitti, sempre più necessari, attraverso cui un’identità si rigenera, pronunciando voti di sempre più rovente fedeltà.
Portatori di voti, sì, Renzi se li prende. Alla corte dei fedelissimi, aggiunge la corte dei feudatari locali, i vari De Luca, i D’Alfonso e i Sammartino. Portatori d’idee, giammai.
Più che un movimento di idee, di storie, di territori e di progetti, una piazza d’arme di pedine a ranghi serrati in vista della più luccicante coda.
Non Luigi Manconi, non Ermete Realacci, non Nicola Latorre, non più politici, insomma, tutti malauguratamente aristotelici. Niente meritocrazia, nessuna competenza. Ma solo e soltanto i fedelissimi bravi a inghiottire qualunque cosa arrivi da quella coda se la prova elettorale – già nel primo passaggio, farsi mettere in lista – è ormai qualcosa a metà tra una sensalia e la lotteria.
L’uomo si riconosce dalla parola, il bue – invece – dalle corna. E ha ragione Rosario Crocetta quando si sente buggerato da Renzi che per non candidarlo alle regionali in Sicilia, gli promette di farlo barone a Roma – “ma che dico barone, duca conte, anzi, principino regnante…” – e poi invece lo “posa” senza neppure rispondergli più. Manco fosse, Matteo, il famoso scimpanzé, quello che acchiappa gli esploratori nella boscaglia, quello che d’improvviso prende, possiede, travolge e poi… e poi non parla, non chiama, non telefona e manco una cartolina manda.
Così fan tutti, si dirà. Il M5S lavora in anticipo e imbullona la “prova fedeltà” allo spavento di una multa di Centomila euro per chiunque tra i suoi futuri deputati e senatori pensi di cambiare gabbana in corso d’opera (un qualcosa che ricorda la Lega Nord della prima ora, quando Umberto Bossi costringeva i candidati a firmare, e se le faceva consegnare preventivamente, le dimissioni da parlamentare).
Così s’è fatto, a volte. Al parco giochi del berlusconismo, dove pure se ne sono viste di cotte e di crude – dove perfino Nunzia De Girolamo, sgradita ai cacicchi di Purpetta, ha rischiato di essere depennata dalle liste di Forza Italia – si aggiunge questo capitolo curioso assai per ciò che fu il Pd.
Un partito dove pure, sotto l’emblema di Falce e Martello ebbe casa “il centralismo democratico”, dove il comunismo officiava la propria dogmatica nel segno del “collettivismo” e che adesso si capovolge nell’estetica della comitiva, l’opera buffa dei ragazzi del muretto reclutati all’ombra del Giglio Magico, in una sorta di vendetta di chissà quale vecchia talpa della storia. Magari quella che sullo Scudo Crociato democristiano sovrappone la Fidelitas a Libertas, con Renzi, proiettato nella dismissione di qualunque complicazione che non comprenda il suo io-io-io, il famoso raglio con cui la tracotanza tenta di cancellare il “noi” della politica.
Lo scimpanzé che prende possesso del territorio è quello che se li trascina, i gregari. E non serve più la politologia per capirne, ma l’etologia, la scienza che studia il comportamento degli animali per saperne di più degli uomini e di ciò che capita loro in assenza di libertà e spirito critico. Il quadrupede al comando si lascia annusare il popò e non servono meriti nell’agorà del branco. Ma solo e soltanto fedeltà. Pronta a essere barattata nel momento stesso in cui il capo inciampa. E sempre inciampa, il capo. Manco fosse, il famoso scimpanzè.

da Il Fatto Quotidiano del 31 gennaio 2018

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