L’intervista (di M.Cabona). Gabriele Muccino: “L’Italia è diventata asfittica”

Gabriele_MuccinoGiuseppe Prezzolini insegnava alla Columbia University di New York dai primi anni ’30. Dai primi anni ’50 scriveva una rubrica per Il Borghese, intitolata “L’America sott’occhio, l’Italia col cannocchiale”. A fine anni ’60 Prezzolini tornò in Italia, a Vietri, poi andò a stabilirsi a Lugano e il titolo della rubrica mutò di conseguenza: “L’Italia sott’occhio, l’America col cannocchiale”.

Nell’ultimo decennio Gabriele Muccino si era stabilito a Los Angeles. Oggi è tornato a Roma e, come Prezzolini, confronta due modi di vivere con la maturità di chi ha lavorato – non solo abitato – su mari lontani tra loro come il Mediterraneo e l’Oceano Pacifico. Nel nuovo film, A casa tutti bene (nei cinema da mercoledì 14 febbraio), chi segue Muccino dagli esordi coglie il culmine, per ora, di una continua crescita artistica, che si accompagna a quella di alcuni attori (Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino, Sabrina Impacciatore, che ha collaborato con Muccino e Paolo Costella alla sceneggiatura) di sua fiducia.

A casa tutti bene è la storia di un raduno di famiglia, che volge al peggio: le nozze d’oro dei decani sono il detonatore di un disagio sociale e sentimentale che figli e figlie, mogli e mariti, compagne e compagni portano con loro da Roma a Ischia a fine estate. Il titolo sintetizza un modo di coprire, con un luogo comune, malesseri profondi, come accadeva ne L’ultimo bacio, in Ricordati di me e in Baciami ancora. In A casa tutti bene il “giardino dei ciliegi” di Muccino si amplia fino a una quindicina di personaggi, schierati tra due classi sociali e tre generazioni.

Per un’ambientazione simile, ma invernale e adriatica, Mario Monicelli aveva trovato un titolo icastico: Parenti serpenti; per un’altra, più ricorrente occasione di incontro familiare, Carlo Vanzina aveva scelto Roma per Il pranzo della domenica. Ma gli archetipi più evocati sono La terrazza di Ettore Scola e Il grande freddo di Lawrence Kasdan. Il film di Muccino si inserisce in questo filone, con una notevole originalità e una rara maestria nel dirigere gli attori, spesso in scena tutti insieme, che fa il pari con la bravura del direttore della fotografia, Shane Hurlbut, americano. La saga dei Ristuccia – cognome ricorrrente nei film di Muccino – dunque continua, come la presenza del personaggio di Antoine Doinel ricorreva nei film di François Truffaut.

Signor Muccino, in tempi di crisi il cinema fa sognare, a differenza della realtà. E lei ha scelto una villa con piscina, che non è da tutti…

“Sì, ho scelto una casa che a Hollywood chiamerebbero ‘dai paletti bianchi’, negli Stati Uniti segno di agiatezza. Quei paletti dicono ai poveri l’essenziale: state alla larga”.

Qui però alcuni sono ammessi oltre la soglia di casa Ristuccia…

“Ma così il confine sociale si sposta soltanto: di qui chi ha i soldi, di là quelli che non li hanno”.

Certi paletti sono più bianchi e più alti. Ma non ci sono solo paletti a discriminare.

“Ho scelto una famiglia di ristoratori romani di successo. Sono degli arricchiti, non ricchi”.

In che senso?

“Nel senso che, ricchi fuori, sono rimasti miseri dentro”.

Si dice che il denaro non renda felici. Ma averlo è meglio.

“Alcuni dei personaggi ce l’hanno. Altri no: per questi ultimi il disagio è più pressante”.

Tredici personaggi in cerca d’amore, due in cerca di soldi.

“E’ così. E sono accomunati tutti dal voler comunque ripartire”.

Per Roma? Ma il mare agitato l’impedisce.

“Anche per tornare a casa, ma soprattutto ripartire nel senso di farsi una nuova vita”.

Che cosa li ostacola?

“Il menefreghismo”.

Ovvero?

“Si sono perse le appartenenze: politiche, sociali, culturali”.

L’Italia è sempre meno diversa dagli Stati Uniti.

“E ciò porta alla solitudine, connessa con la mancanza di valori”.

Continui.

“Negli Stati Uniti esiste solo ciò che è legale e ciò che è illegale”.

E il resto dov’è finito?

“E’ stato cannibalizzato dal denaro”.

Il suo film parte come una commedia brillante e sfocia nella commedia amara. Quasi nel dramma.

“E’ un percorso che trova momenti di tregua nella musica, nelle canzoni intonate insieme in auto, che rimandano al passato come collante emotivo: si ballava, una volta, dopo le battaglie, dopo una morte. E nel film racconto conflitti devastanti”.

Perché questa inclinazione, ancor più che nei suoi altri film italiani?

“Perché negli anni americani ho visto, col cannocchiale, l’Italia cambiare”.

In che modo?

“L’ho vista diventare asfittica. E avviarsi alla decadenza”.

*Da La Verità

 

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Maurizio Cabona*

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