Focus (di E.Nistri). I miei 65 anni e il bilancio di un conservatore: “Je ne regrette rien”

Il professor Enrico Nistri a destra, durante una conferenza nella sala consiliare del Comune di Modena
Il professor Enrico Nistri a destra, durante una conferenza nella sala consiliare del Comune di Modena

Cari amici di Barbadillo,

il 3 maggio ho appena compiuto 65 anni. Echissenefrega, borbotterà qualcuno di voi. Deliri narcisistici a parte, questa età non presenta nemmeno più le caratteristiche che aveva una volta, come spartiacque fra l’età matura e la vecchiaia, fra il tempo del lavoro e il tempo del riposo. Una società che prolunga a tempo indeterminato l’adolescenza solleva sempre più in alto l’asticella del pensionamento, col pretesto dell’innalzamento della speranza di vita, smentita per altro dalle statistiche degli ultimi due anni. E il fatto di essere riuscito fortunosamente a sfuggire alla tagliola della legge Fornero non mi esime dall’esprimere la mia solidarietà a quanti saranno costretti a sgobbare fino alle soglie della settantina, salvo più tardi sentirsi rinfacciare di costituire un peso per il sistema previdenziale, colpevoli magari di assorbire le risorse destinate al mantenimento di giovani e palestrati migranti.

Non preoccupatevi: non intendo tediarvi con le solite geremiadi sullo scarso rispetto della vecchiaia. Questo argomento è stato trattato già qualche migliaio di anni fa da Platone nella Repubblica, per tacere del Tolstoj dei Quattro libri di lettura. Più prosaicamente, ricordo un racconto, “La baia al nonno” che declamava Paolo Poli, facendo il verso alla prosa toscaneggiante dei vari Palazzeschi, o gli sberleffi anni Sessanta a “matusa” e “semifreddi”. In fondo è giusto che la mia generazione espii in qualche modo la colpa di essere voluta crescere troppo in fretta, e di non aver saputo invecchiare.

Con l’andare degli anni la vista si appanna, l’udito si ottunde. Ma a volte la percezione della realtà può divenire più acuta. Non ero mai riuscito a comprendere appieno il significato di quel passaggio dell’allocuzione di Ulisse, nella Divina Commedia, in cui l’eroe greco parla ai compagni di “questa nostra piccola vigilia dei nostri sensi, ch’è del rimanente”. Ora la comprendo, sia pure a modo mio. Propria della senescenza – quando le cose vanno bene – è una lenta attenuazione della sensibilità, che permette una minor partecipazione ai piaceri della vita. Mi accorgo spesso che sapori e odori hanno perso d’intensità, per esempio che il profumo dei cespugli selvatici sulle dune della spiaggia libera di Viareggio non è intenso come quando mi ci avventuravo a vent’anni. Ma sarà colpa dell’inquinamento, o semplicemente dell’attenuarsi delle mie capacità olfattive? Senectus ipsa morbus, dicevano del resto i latini. Ma Flaiano, a sua volta, sosteneva che è la vita una malattia inguaribile.

Non preoccupatevi, comunque: non intendo tediarvi con la cronaca dei miei acciacchi intermittenti, o con l’elenco delle mie paure. Prima fra tutte, vedere prima o poi una giovane e bella ragazza offrirmi il suo posto in autobus (la maleducazione dilagante per fortuna ritarda quel momento). Voglio piuttosto parlarvi delle trasmutazioni che ho visto fare al mondo nell’arco di questi sessantacinque anni. Quando sono nato, e nella mia prima infanzia, l’Europa unita era alle prime tappe, ma in compenso la bandiera delle principali nazioni europee batteva ancora su buona parte dell’Asia e dell’Africa. Persino il tricolore di un’Italia sconfitta garriva in Somalia, sia pure per l’amministrazione fiduciaria. La Chiesa cattolica sembrava un monolite inattaccabile, oltre che il braccio morale dell’Occidente nel confronto con il comunismo ateo. Il capitalismo si presentava con l’immagine accattivante dei palloncini regalati ai bambini nei grandi magazzini e l’America col sorriso aperto di John Wayne, le disavventure di Donald Duck, le miracolose storie di self made men con cui si chiudeva ogni numero di “Selezione”. Non potevo non ringraziare Dio di essere nato cattolico, maschio, europeo (nonché, permettetemi la civetteria, fiorentino), nonostante le suggestioni dell’American way of life. Sì, perché l’America, negli anni della presidenza Eisenhower viveva, come la Roma di Augusto e l’Inghilterra vittoriana, la sua grande stagione imperiale, fatta anche di belle canzoni e di capolavori del cinema, sia pure con le debite proporzioni: Frank Sinatra non era Virgilio, né i Platters Kipling. Vidi il sogno americano affondare nelle risaie del Vietnam, e divenni antiamericano rinfacciando agli Stati Uniti non di essere imperialisti, ma di non esserlo stati abbastanza. Ma fu la percezione dell’impotenza dell’Occidente dinanzi all’imperialismo sovietico a farmi avvicinare alla destra. Non credo che replicherei le stesse scelte, e non solo perché mi hanno pregiudicato molte prospettive di carriera, mentre hanno consentito ad altri di campare fino a quarant’anni vendendo santini di Mussolini, salvo rinnegarlo nella speranza, rivelatasi fallace, di essere ammessi nel salotto buono della politica: il fascismo come male assoluto al posto delle pattine. Col senno del poi, riconosco ai partiti della prima repubblica di avermi consentito di vivere in un’era della libertà, in cui si poteva essere omosessuali senza essere mandati al confino di polizia, ma ci si poteva anche dichiarare omofobi senza essere messi al confino dai giornali che contano, in cui non era vietato darsi del “lei”, ma nemmeno scrivere “negro”, in cui si censuravano le tette, ma non le idee, in cui non si andava più in galera perché anarchici o comunisti, ma non si rischiava il processo per un saluto romano al cimitero o per qualche idiozia scritta su Facebook. Avrei potuto fare scelte politiche diverse, o tenermi fuori dalla mischia; ma era colpa di un ragazzino quindicenne se a Firenze nel febbraio del 1969 l’unico corteo per onorare Jan Palach lo fece la Giovane Italia?

Sono cresciuto da bambino nella fede del progresso: alla prima comunione i regali canonici erano biografie di grandi santi, ma anche di scienziati benefattori dell’umanità. Crescendo, percepii quanto di volgare e di illusorio vi fosse nella frenesia consumistica degli anni Sessanta. Fui un ecologista ante litteram, anche se oggi mi disturbano certi fondamentalismi ambientalisti. La mia scelta di preferire la bicicletta e il treno come mezzi di trasporto nacque allora. La crisi petrolifera mi dette ragione, anche se forse sarebbe stato meglio avere torto.

Considero gli anni Settanta gli anni peggiori della storia italiana, e non solo. Purtroppo, furono anche gli anni della mia prima giovinezza. Gli anni Ottanta furono una replica a colori dei Sessanta, fatta più di immagine che di sostanza, fondati più sulle griffes che sul tondino. Furono però anche gli anni in cui l’Italia, grazie un po’ a De Felice, un po’ a Craxi (assai meno ai neofascisti, preoccupati che qualcuno raccogliesse i frutti del loro orticello), parve per un momento riconciliarsi con la sua storia. I Novanta furono gli anni della grande illusione, cui è seguita la grande delusione che ci accompagna ancora oggi.

Tanti anni fa, vedendo una mediocre pellicola di Sordi, Fumo di Londra, mi colpì la frase di uno degli interlocutori inglesi del protagonista, sulla differenza fra un conservatore e un reazionario: “Un conservatore rimpiange quanto c’è di buono del passato, un reazionario solo il peggio”. Mi considero, a 65 anni, un conservatore. Della scuola di una volta non rimpiango il compito in classe strappato dal banco allo squillo della campanella, le inutili sfilze di analisi grammaticali, il terrore delle macchie sul foglio di bella, i problemi cervellotici con gli ettari e le are, ma le eterne vacanze dai primi di giugno a fine settembre, i vecchi sussidiari che insegnavano tutto con poche misurate parole, e poi il piacere di scoprire i classici greci e latini, di commuovermi per il dialogo di Glauco e Diomede o per l’episodio di Eurialo e Niso. Servizio militare a parte, i maggiori insegnamenti istituzionali che ho avuto dalla vita li ho ricevuti da quello che una volta era chiamato il ginnasio: i tre anni delle medie, purtroppo già riformati, e poi la quarta e la quinta. Vi ho imparato due lingue antiche e una moderna; vi ho assimilato il piacere e il rigore della ricerca etimologica; vi ho conquistato quella libertà dalla grammatica che nasce solo dal possesso della grammatica. Al liceo già volavo, non senza presunzione, da solo; l’università mi ha insegnato a fare le note a piè di pagina, e nemmeno tanto bene.

Con un po’ di narcisismo alla Chateaubriand, potrei dire di essere vissuto a cavallo fra due mondi. Non tutto il mondo di ieri è da rimpiangere, non tutto il presente è da temere. Ho incominciato a scrivere facendo stridere il pennino sul quaderno (la biro venne ammessa solo alle medie), per passare alla tastiera di un computer dopo dodici anni di Olivetti. Ho licenziato i miei primi libri correggendo le bozze impresse a piombo, oggi tutto si risolve con l’allegato a una mail, ma per questo è in agguato il refuso, che non si può chiamare così perché non si rifonde più nessun rigo. Ho fatto il militare in fanteria, un’arma in cui negli anni Settanta sopravvivevano consuetudini da Regio Esercito. Ho sentito un sergente maggiore rimproverare una recluta che l’aveva chiamato “signor maggiore” ricordandogli che “il titolo di signore spetta solo da sottotenente in su”: avrei trovato la stessa risposta, compilando un’antologia, in un romanzo di Corrado Alvaro, Vent’anni, ambientato negli anni della Grande Guerra. Quando ero ragazzo, si mangiava il pesce di venerdì perché lo prescriveva la Chiesa. Oggi, in molte città, lo si fa perché la raccolta differenziata porta a porta dei rifiuti ritira l’organico solo quel giorno: dal tempo della Chiesa (per citare Le Goff) attraverso il tempo del mercante siamo passati al tempo del netturbino. Il primo frigorifero entrato in casa nostra, un Frigidaire, aveva le chiavi alla maniglia, per impedire che la “serva”, o un familiare goloso, lo svaligiasse all’insaputa della padrona di casa. Oggi sono i cassonetti della spazzatura di alberghi e ristoranti ad avere il lucchetto, per evitare che qualcuno li utilizzi per i propri rifiuti. C’è stato un progresso? Certo, è meglio morire d’indigestione che di fame.

Quando avevo quattordici anni e una gran voglia di essere ammesso nel mondo degli adulti, a volte mi capitava di entrare in un negozio e chiedere qualcosa per sentire se il bottegaio mi dava del tu o del lei. Oggi mi capita che sia la commessa ventenne del supermercato a darmi del tu e non obietto nulla: mi limito a pensare che sia miope, e non maleducata.

Anche il mondo del denaro è cambiato. Mi rendo conto di aver risparmiato una vita per accumulare non beni reali, ma numeri lampeggianti sullo schermo di un computer, che un hacker o una tempesta magnetica potrebbe cancellare. Prima il denaro era qualcosa di solido, sonante o frusciante. Oggi il cartaceo è demonizzato, e si preannuncia l’era delle valute telematiche. Ma un moderno Paperone se si tuffasse in una piscina piena di bit coin rischierebbe di battere una testata. Il turboliberismo sta realizzando quello che il comunismo non era riuscito a fare: creare un capitalismo senza proprietà.

Ricordo suoni, odori, immagini di un tempo che sembra scomparso appena ieri. Le ciaffate di madri non permissiviste ai figli discoli, l’odore acre dei “fulminanti” delle pistole giocattolo con cui giocavamo noi ragazzini degli anni Cinquanta non ancora cresciuti con una pedagogia antimilitaristica, l’odore di plastica bruciata insieme al resto del “lavarone” sulla spiaggia di Viareggio, nei mesi invernali (solo dopo molti anni, al tempo di Seveso, avrei scoperto che era diossina), il passo triplo delle ronde, con la Beretta al cinturone (oggi ho visto persino i Carabinieri procedere fuori passo), il garrire delle rondini in un cielo azzurro di primavera, la scritta “fesso chi legge” o “viva l’origine del mondo” (ovviamente, senza perifrasi) sui muri di un’abitazione, sostituita dai ghirigori esoterici dei writer, il grido “Pelo! Pelo!” del capitano Calella, al circolo ufficiali di Ozzano dell’Emilia, dinanzi ai primi accenni di nudità a colori in un programma della “nuova” Rai intitolato “Odeon. Tutto quanto fa spettacolo”…

Ricordo questo e altro, e vorrei dire come la Piaf e i reduci d’Algeria “Je ne regrette rien”. Perché rimpiango queste e tante cose, e insieme ad esse la mia giovinezza. Ma non voglio annoiarvi oltre: ho parlato anche troppo di me e di questo compleanno. Comunque, vi dispenso dagli auguri, e anche dai regali. Anche perché, cari amici, il miglior regalo me lo fate voi tutti i giorni, mandando avanti “Barbadillo”.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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