Libri. “Gli ultimi mohicani” di Stenio Solinas: perché siamo testimoni della fine della politica

solinasHa ancora senso parlare di politica, scrivere di politica, discutere di politica, accapigliarsi per la politica, amare la politica, odiare la politica, vivere di politica? Ha ancora senso tutto ciò quando la politica non c’è più? E’ la domanda di fondo che sottintende al saggio di Stenio Solinas uscito da pochi giorni per Bietti Edizioni, Gli ultimi mohicani, che ha l’esplicito sottotitolo Quel che resta della politica. Una breve analisi di una sessantina di pagine sulla contemporaneità, al quale seguono altrettante pagine di déja vu, in buona parte autobiografiche, non a caso definite dall’autore «Come eravamo» e dedicate agli Anni Settanta e Ottanta.

Solinas non è un autore consolatorio. Per indole e storia personale non ha mai bazzicato le strade frequentate della massa, prediligendo invece i sentieri meno battuti e lontani dalla folla. Non a caso ha scelto di aprire il libro con una frase dell’amato Chateaubriand, tratta dalle Memorie d’oltretomba: «La politica genera dei solitari come la religione genera degli anacoreti». E le prime pagine del saggio sembrano confermare la vocazione alla solitudine.

Il titolo del volume deriva infatti da un surreale dialogo con un vecchio comunista, cieco, che in occasione della presentazione di un libro in un piccolo paese siciliano rispolvera contro l’autore un anacronistico antifascismo. «Senza offesa, siete come l’ultimo dei mohicani, gli dico. Lui ride, un riso allegro di ragazzo, poi mi punta il bastone dritto al petto. Sono? E voi allora? Siamo gli ultimi mohicani».

Affrontare il tema della politica italiana degli ultimi vent’anni (ma il ragionamento potrebbe estendersi anche ad altre realtà geografiche) potrebbe sembrare inutile. «Il berlusconismo, il prodismo e infine il montismo raccontano in fondo la stessa cosa: l’aziendalizzazione della politica, l’idea di sostituire qualcosa d’impalpabile eppure reale – sentimenti, tradizioni, aspettative, memorie – con una logica imprenditorial-manageriale. Una nazione moderna, questo era ciò che ci era stato promesso in cambio, ma se oggi ci guardiamo attorno fatichiamo a vedere sia la modernità, sia la nazione».

Solinas, inviato de Il Giornale e in passato esponente di punta della Nuova Destra, dedica molto spazio alla crisi, forse terminale, dell’Italia come nazione. E soprattutto dedica spazio al tramonto dell’area politica che in difesa dell’idea di nazione si è sempre schierata: quella destra prima «esule in patria», poi post-fascista e infine confluita nel mai nato partito popolare di centrodestra, che ha lasciato per strada i fardelli del passato e con essi anche gran parte della propria identità. Rivelando al mondo il suo volto peggiore, come insegna la cronaca giudiziaria.

Ma se l’abbraccio con Berlusconi per i post-missini si è rivelato fatale, non è che dal ventennio polarizzato dalla figura del tycoon televisivo (in cui la sinistra ha campato solo di anti-berlusconismo) siano uscite una cultura e un’offerta politica differenti. «Berlusconi resterà nella cronaca come un politico abile, discusso e discutibile, ma non nella storia come uno statista. In lui l’imprenditore ha sempre  vinto sull’uomo di Stato, l’azienda sulla nazione, l’interesse privato sul bene pubblico. Mancandogli l’elemento tragico, ha sempre brigato per il compromesso, l’accordo, la seduzione e/o corruzione, piuttosto che per la convinzione». Motivo per cui, una volta scomparso l’uomo, il progetto politico si squaglierà come neve al sole. «Una cultura del berlusconismo – scrive Solinas – non è mai nata, sia sotto il profilo istituzionale (leggi, riforme, contributi specifici) sia sotto quello, come dire, più diffuso dello stile di vita, dei valori».

Siamo davvero, tutti noi che ancora inseguiamo una “certa” politica, gli ultimi mohicani? Come detto, Solinas non è consolatorio. In più è uomo di grande onestà intellettuale, per cui non finge di vendere ricette o illusioni. Alla fine del suo libro ci si sente disincantati, forse malinconici, di sicuro poco fiduciosi nell’avvenire. Al termine di questo ventennio berlusconiano, ma in realtà dominato in maniera quasi uguale dall’antiberlusconismo più becero e viscerale, non si intravvede la luce in fondo al tunnel. All’orizzonte si profila un «mandarinato transnazionale che, con i partiti come garanti, cercherà di drenare risorse dalle tasche dei cittadini in termini di diritti acquisiti, certezze e servizi sociali, prospettive economiche e di carriera, guardandosi però bene dall’operare in profondità», perché altrimenti occorrerebbe rimettere in discussione l’esistenza dei partiti come centri di potere.

In questa fase anche le proposte alternative, come il “grillismo”, appaiono sintomi del decadimento, più che terapie. E il problema di fondo rimane l’identità del popolo italiano. E qui, inserendosi sulla scia di Leopardi e più di recente Longanesi e Flaiano, Stenio Solinas manifesta tutto il proprio scetticismo sull’idealtipo del cittadino tricolore: intimamente democristiano, individualista, refrattario a qualsiasi gerarchia, privo di etica comune e senso dello Stato, schiavo della retorica demo-qualunquista della piazza, delle marce, delle firme e della petizione. «Su questo italiano e grazie a questo italiano possiamo dichiarare il nostro fallimento», conclude amaramente Solinas.

Giorgio Ballario

Giorgio Ballario su Barbadillo.it

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