Industria. Amarcord Fiat (che dopo Marchionne potrebbe non rimanere il legame con l’Italia)

Torino

Da bambino ancora dominava in Fiat, a livello dirigenziale, l’uso del dialetto piemontese, come ai tempi del vecchio senatore Giovanni Agnelli, il fondatore. Ora, nell’estate del 2018, dopo l’uscita di scena di Sergio Marchionne, in modo brusco, traumatico, improvviso, e l’arrivo dell’inglese Mike Manley, già numero uno di Jeep, al comando di FCA, il legame storico, peraltro già molto tenue, della Fiat con Torino rischia di evaporare del tutto alla pari dell’uso della lingua italiana. Non è neppure scontato che FCA, senza Marchionne, continuerà a mantenere il suo legame con l’Italia.

Quando ero bambino io ero curioso, come lo sono quasi tutti i bambini, credo. Essendo figlio unico il mio mondo era quello dei grandi, essenzialmente. Ascoltavo racconti di guerra, di eventi non molto lontani di violenza e di sangue, storie che erano come scolpite nei ricordi dei grandi. Ed in tali storie io m’immedesimavo, cercavo di comprenderle e di scorgere frontiere improbabili tra il bene ed il male, il giusto e l’ingiusto. Forse ero precoce, forse no. Ma la mia città, Torino, offriva anche un confortante panorama d’ordine e tranquillità, passata la stagione dei bombardamenti, dei rastrellamenti, della fame, delle vendette fratricide, almeno agli occhi di un bambino che sentiva allora, per radio, alle 8 di sera, le notizie della crisi di Suez, udiva sulla testa il rombo degli aerei francesi ed inglesi che lì si recavano e, quello stesso anno, apprendeva che i carri armati sovietici erano entrati a Budapest, schiacciando la ribellione ai confini dell’impero sovietico e, dalla copertina di Walter Molino, sulla “Domenica del Corriere”,  che a seguito del XX Congresso del PCUS la salma del dittatore Giuseppe Stalin, morto nel ’53, era stata fatta sloggiare dalla sepoltura del Cremlino a Mosca… 

John Elkann e Sergio Marchionne

Non mi ricordo esattamente l’ordine di tali avvenimenti, ma di sicuro era il 1956 ed io frequentavo la Prima Elementare alla Rayneri di Corso Marconi, iniziata ad ottobre dell’anno prima. Leggevo molto, quasi  tutta “La Stampa”, pur essendo piccolo, anche se varie cose non le capivo, e mio padre m’insegnava, quando ero a letto malato, i giochi delle carte e mi raccontava di d’Artagnan e del Conte di Montecristo.

Nella mia città, grigia ed ordinata, c’erano la sera tanti soldatini mal uniformati in libera uscita e, naturalmente, varie caserme. Anche la scuola sembrava una caserma e così le molte sedi degli stabilimenti e degli uffici della Fiat ed imprese dipendenti del Gruppo. Mio padre da quell’anno lavorava alla Sede Centrale di Corso Marconi (due palazzoni nuovi, biancastri che occupavano interi isolati). Ma passando in tram, andando a trovare zii e cugini – o forse principalmente ascoltandolo – sapevo che c’erano un immenso stabilimento a Mirafiori, dove prima lavorava mio padre, il Lingotto, le Ferriere, il Materiale Ferroviario, la Grandi Motori, l’Aeronautica di Corso Marche, la RIV. Più tardi seppi della Comau, le macchine agricole e le macchine per movimento terra, l’editoria, la pubblicità, la Magneti Marelli, gli alberghi, le autostrade, persino i frigoriferi, un indotto composito e smisurato. Cominciando con i nostri grandi carrozzieri, da Pinin Farina a Bertone, da Ghia a Vignale; infine i nuovi, grandi stabilimenti di Rivalta e quelli ricevuti dalla Abarth, dalla Lancia – acquistata dal cementiere Pesenti nel 1969 al prezzo simbolico di 1 Lira per azione – alle molte, grandi e luminose concessionarie, da quella istituzionale di corso Bramante all’elegante salone espositivo di Via Roma, che si trovava, appunto, tra via Roma, via Buozzi, via Gobetti (di fronte all’Hotel Principi di Piemonte). Vi erano esposte, con contorno di vezzose fanciulle, le ultime novità della Casa, di cui era la vetrina cittadina; purtroppo chiuso a fine anni ’70 per motivi economici. 

Da un capo all’altro, da una periferia all’altra. Il giornale che arrivava ogni giorno a casa, negli anni ’50, la mattina presto, era “La Stampa” (chiamata “La bugiarda” dai comunisti), una delle teste, e certo la non meno importante, dell’aquila multicefala dell’Impero Fiat, la galassia onnivora ed orgogliosa che tutto pareva assorbire ed ingoiare senza sosta, che alla città dispensava un po’ di tutto, dalle auto ai tram, dalla grande distribuzione alle imprese costruttrici, dalle Assicurazioni e Finanziarie al… vermuth Cinzano! Lavoro in quantità e pure servizi sociali, a cominciare dalla preziosa Mutua di Via Carlo Alberto, poi di Via Chiabrera, cioè l’assistenza sanitaria della MALF, asili nido, scuole Allievi Fiat, case di riposo, edifici di abitazione, in locazione o a riscatto, attrezzature sportive in gran copia, cinema gratuito e tante, tante altre cose… La Fiat organizzava poi le vacanze in colonia per i bambini a Marina di Massa o Sauze d’Oulx,  le gite domenicali in montagna o a qualche castello, le cure termali ad Acqui ed Abano Terme per chi soffriva precocemente d’artrosi,  i soggiorni per gli anziani a Ospedaletti, i treni dei pellegrinaggi per i malati a Lourdes, i regali di Natale per tutti i figli dei dipendenti ecc. ecc. 

Gli Anziani Fiat costituivano una categoria sociale rispettata ed onorata. Molti esibivano quotidianamente, con sincero orgoglio, il distintivo con i diamanti (sintetici): 1 per 30 anni di servizio, 2 per 35, 3 per 40. L’ “Illustrato Fiat” arrivava mensilmente a domicilio per raccontarci, con molte fotografie, dei trionfi e del generoso cuore dell’impresa. Quell’entità onnipotente, solenne ed un po’ misteriosa che ci dava da vivere, che cresceva giorno dopo giorno, per il bene di tutti, a partire da noi che eravamo dei privilegiati vivendo a Torino. Dove arrivavano dal sud, con il ‘Treno del Sole’, legioni di meridionali per lavorarci. 

Le vie di Torino raccontavano pure di un’altra Casa Reale, quella che non c’era più, che aveva il secolo prima fatto l’Italia, ponendosi alla testa del movimento del Risorgimento nazionale, ricco di martiri ed eroi, giovani che per il tricolore si facevano bucare la pancia o impiccare; dinastia spazzata via dalla Guerra, ma che continuava ad esistere nei grandi monumenti di bronzo – in particolare quello a Vittorio Emanuele II, che pareva passeggiare su tetti e cime di platani e castagni – nei palazzi, nei nomi di vie, corsi, piazze, nei ricordi dei grandi, con accenti che variavano dalla simpatia nostalgica all’avversione astiosa. Torino aveva conservato il culto sabaudo e prussiano dello Stato, dell’autorità, della sicurezza e della gerarchia. Il 2 giugno, alla sfilata militare per la Festa della Repubblica, i più applauditi erano i carabinieri a cavallo. In quante altre parti del mondo gli sbirri ricevevano simili manifestazioni di simpatia popolare?

Sono passate tante stagioni. Quella Fiat non c’è più da tempo (anche se ancora circolano molte auto con il suo marchio). Per i torinesi era la ‘mamma-padrona’, come ricordò in un celebre articolo su “la Repubblica” Giorgio Bocca nel  2002, o “La Feroce”,  sostenevano sindacalisti e comunisti… “Un impero spaziale e, insieme, una gigantesca caserma. Dominata dall’ossessione di produrre a qualunque costo, anche a quello della crudeltà. Con una disciplina militare e una gerarchia di capi inflessibili”, scrisse Giampaolo Pansa. Ma in Fiat l’osmosi sociale (o la meritocrazia applicata) erano tratti distintivi delle dinamiche dell’azienda.

A partire dal 1973 vennero introdotte  innovazioni tecnologiche e trasformati i sistemi lavorativi. Tale trasformazione automatizzò le lavorazioni più faticose e nocive (la lastroferratura, la verniciatura, l’assemblaggio della scocca e di parti meccaniche) e rese autonome le fasi della lavorazione, eliminando di fatto la tradizionale catena di montaggio. Nonostante un contesto oggettivamente difficile derivante dagli anni ’70, dove alla crisi Fiat si sommava quella italiana, con terrorismo e rapporti sindacali tesi, quando l’Amministratore Delegato di Fiat Auto era l’ing. Vittorio Ghidella, all’inizio degli anni ’80,  l’automobile era ancora centrale e la nascita di un nuovo modello era un processo altamente integrato tra le funzioni aziendali ed ottimizzato nel rapporto benefici/costi, per limitare gli investimenti, avere una ampia gamma, contenere i tempi di sviluppo e di attrezzamento: una vettura come la UNO fatturava 1.000 miliardi di lire al mese.  

Dalla fine degli anni Ottanta le scelte d’investimento finanziario del gruppo furono  viceversa orientate, per scelta dell’allora Presidente Agnelli, verso settori diversi da quello dell’automobile, secondo una logica che privilegiava investimenti a maggiore o più certa redditività. Gli anni Novanta segnano una netta inversione di tendenza rispetto al decennio precedente: la Fiat perde vistosamente posizioni sia sul mercato domestico che su quello europeo, mentre concorrenti come Ford, Renault, Peugeot, Volkswagen migliorano le loro. A peggiorare la situazione, si aggiunse nel 1993 lo smantellamento delle ultime barriere alla circolazione di merci nella Comunità Europea. Venne per forza attuata  una gran ricapitalizzazione (4.285 miliardi) sotto la regia di Mediobanca, che avrebbe esercitato un forte potere di condizionamento. 

Siamo alla fine del secolo e la Fiat celebra il suo centenario nel 1999. Adesso è un’impresa internazionale, ma non ancora globale quando la sfida della globalizzazione incombe e non consente facili via d’uscita. Tra i produttori di auto si colloca nella fascia di mezzo. Il suo volume produttivo è ancora limitato. Va in porto nel 2000 l’accordo con la General Motors. La società americana acquisisce il 20 per cento di Fiat Auto, mentre Fiat SpA entra con il 6 per cento nella GM. L’accordo prevede anche due joint venture per acquisti e produzioni di motori e cambi e un’opzione put per il gruppo italiano che potrebbe vendere a GM il restante 80 per cento di Fiat Auto. L’accordo è importante. Va a cadere però nel pieno di una grave crisi finanziaria della Fiat. 

Il 24 gennaio 2003 muore Giovanni Agnelli. La presidenza viene assunta dal fratello di Gianni, Umberto, affiancato da Morchio quale amministratore delegato, che procede sulla strada del difficile risanamento. La famiglia Agnelli non lascia la Fiat. Ma anche Umberto Agnelli, affetto da  carcinoma polmonare, muore, il 24 maggio 2004. Forti del sostegno di uomini dall’antica e solida fiducia come Gianluigi Gabetti, e Franzo Grande Stevens, gli Agnelli respingono la richiesta avanzata da Morchio di sommare gli incarichi di presidente e amministratore delegato. Alla presidenza viene designato Luca Cordero di Montezemolo, al quale  viene affiancato Sergio Marchionne, un manager ancora poco noto in Italia, ma molto stimato negli ambienti economici e finanziari internazionali. 

Nel settembre 2005 le banche che tre anni prima hanno concesso il prestito «convertendo» sottoscrivono un aumento del capitale Fiat di 3 miliardi di euro, liberato tramite compensazione dei loro crediti. Ma, prima della conversione, la Exor, società lussemburghese di proprietà degli Agnelli, tramite un contratto di equity swap con Merryll Lynch, riscatta azioni Fiat rastrellate sul mercato, che cede a Ifil. In tal modo si evita che l’ingresso delle banche nel capitale Fiat per il 28 per cento diluisca la quota di controllo dell’Ifil, ovvero degli Agnelli,  esponendoli alla perdita del controllo della società. 

Nel giugno 2009 viene stipulato un accordo tra Fiat e Chrysler, terzo produttore americano, in cattivissime acque,  che consiste in un’alleanza strategica globale. L’azionista di maggioranza è la Exor Spa, dal 2009 nuova denominazione di Ifi, successore di Ifil. La Exor spa è controllata dalla Giovanni Agnelli e C. Sapa, in proprietà ad oltre cento discendenti Agnelli. La personalità della famiglia che ne rappresenta gli interessi in posizioni di primo piano è John Elkann, nipote dell’Avvocato, presidente della Giovanni Agnelli e C. Sapa, di Exor Spa, di Fiat Spa. 

 Per L’equity swap del 2005 Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens saranno condannati, nel 2013, ad un anno e quattro mesi nel processo penale di appello Ifil-Exor, a Torino: la famiglia Agnelli avrebbe mentito al mercato borsistico (aggiotaggio informativo), che vide numerosi strappi al rialzo, pur di non perdere il controllo della Fiat, secondo quanto ritenuto dalla Consob. La Fiat Group Automobiles diventa FCA Italy, como sussidiaria della compagnia Fiat Chrysler Automobiles, nel 2014. Passo nella direzione della “Corporate Identity” di Fiat e Chrysler quale gruppo unico a livello mondiale. Fiat Chrysler Automobiles N.V. (FCA), un’azienda italo-statunitense di diritto olandese, e con Sede principale il Regno Unito, è il settimo gruppo automobilistico mondiale. La Ferrari viene scorporata nel 2016 e fa ora (2018) parte del Gruppo Exor N.V.

Nel 1966 Vittorio Valletta, già con 83 anni, aveva ceduto, senza entusiasmo, lo scettro a Gianni Agnelli, fino ad allora ricco, bello e ricercato playboy, di casa a New York (aveva pure avuto la nonna materna statunitense), sulla Costa Azzurra e sulle nevi di Saint-Moritz, rinomato tombeur de femmes e “Principe del Rinascimento”, innamorato dell’arte, della sua Juventus, delle barche a vela. Uomo certo non banale, dalla battuta ironica o sferzante sempre sulle labbra: si trovò nel posto sbagliato o, chissà, nel momento storico sbagliato.

Il vecchio cit e gram gli lascia l’onnivora e scintillante “Fiat Terra, Mare, Cielo”, il maggiore complesso europeo, che aveva appena concluso con l’URSS l’accordo di Togliattigrad, la città russa dell’auto, per imbarazzo e scuorno (ed un po’ d’orgoglio) dei comunisti nostrani… Uomo di mondo, amico dei Grandi della Terra, Agnelli amava gustare ai facoltosi liberals “politically correct”, a quelli che con lui affollarono la famosa festa Black and White nel Plaza di New York, quello stesso anno, per celebrare il successo di In Cold Blood di Truman Capote. Nelle sue “mani” presuntuose e noncuranti (basti pensare a quandi ricomprò, nell’agosto 1986, la quota libica del 10% per pressioni USA, spendendo una fortuna, essendo il titolo al massimo della quotazione, contro il parere di Gianluigi Gabetti), di grande imprenditore a livello mondiale, osannato ed ammirato acriticamente, da ogni parte politica, per la Fiat fu l’inizio di un disastro, che continuerà al di là della sua morte, nel 2003, dopo il suicidio dell’unico figlio maschio, Edoardo, ed altre tragedie familiari. 

Intelligente, ma superficiale, scettico, un pavone capriccioso che si compiaceva della propria ruota, curioso ed annoiato quasi sempre, Gianni Agnelli fu nominato Senatore a vita come il nonno omonimo. La moglie Marella Caracciolo di Castagneto, insuperata icona di stile, contribuì a forgiare la sua immagine di personaggio seducente e di enorme classe. Sorella di Carlo, editore di “L’Espresso” e “la Repubblica”.

Rampollo viziato di una coppia “fitzgeraldiana”, egli perse precocemente, a 14 anni, il padre Edoardo in un banale incidente d’aviazione (1935) e la madre Virginia, principessa bella, moderna ed un po’ stravagante, odiata dalla suocera, non aveva voglia di dedicarsi solo ed esclusivamente ai sette figli. In più era diventata l’amante di Malaparte, già direttore, licenziato dal suocero, de “La Stampa”. Il ruvido nonno paterno, che parlava sempre in piemontese, con tutti, dotato di un robusto “pelo sullo stomaco”, cercò di porvi rimedio, trascinò la nuora vedova in Tribunale per toglierle la “patria potestà” dei nipoti; ci riuscì, ma anch’egli era ormai vecchio e logoro per fare da padre adottivo. Anche se si preoccupò degli studi del nipote primogenito Gianni, tanto sveglio quanto svogliato. Donna Virginia andò a lamentarsi personalmente dal Duce, che le diede ragione, ed i due giunsero ad una intesa. Su di lei Marina Ripa di Meana e Gabriella Mecucci hanno pubblicato, nel 2010, Virginia Agnelli. Madre e Farfalla.

Famoso per le corse in auto lungo i viali di Torino (!), amante degli elicotteri, frenetico ed inconcludente, a suo agio nel bel mondo della Fifth Avenue, nell’enorme appartamento sul Central Park, l’Avvocato, mediocre marito, padre, industriale, lasciò, con colpevole distrazione, crescere e prosperare le BR, l’estremismo terrorista, nei suoi stabilimenti, dove fino a pochi anni prima dominava la ferrea disciplina di Valletta. Mentre lui si svagava con il clan Kennedy, regnati decaduti, attrici, armatori greci, playboys, scrittori e pseudo-intellettuali, svegliava alle sei campioni del pallone, dandosela da intenditore, il Gruppo galleggiava grazie ai contributi governativi italiani ed alla compiacenza (non gratuita) del sistema bancario. Acquisiva, dopo la Lancia, anche l’Abarth, la Ferrari, quindi l’Alfa Romeo, la Maserati, rimanendo l’unico produttore d’auto della penisola, ma perso, come industriale, in una fitta ragnatela d’investimenti e partecipazioni, in troppi e disparati settori merceologici.

Diceva Sergio Marchionne, nominato nel 2007 “torinese dell’anno”, di fronte ad un selezionato uditorio nella Capitale subalpina: 

‘A Torino c’è una gran parte della leadership della Fiat. C’è il più grande tra i nostri stabilimenti italiani che raccoglie l’esperienza di 108 anni di automobili. Mirafiori è la sede delle attività di progettazione, di design e di sviluppo dei prodotti, della direzione logistica, dei servizi finanziari, delle attività commerciali e internazionali. Mirafiori sta vivendo una rinascita che è innanzitutto industriale… La Fiat è parte della storia di questa città e di questo Paese ed è stata una presenza che ha sempre significato qualcosa. Riassume il senso di responsabilità con cui intendiamo muoverci, i nostri valori, lo spirito e la filosofia che animano la nuova Fiat’. 

Parole tante, sempre, come i ‘Piani Industriali’ presentati e mai attuati, se non assai parzialmente. Tutti fumi colorati? Se non tutti, molti, molti…

Vari marchi Fiat e Chrysler, insieme con Lancia (già condannata alla sparizione senza appello), SRT, Fiat Professional (Light Commercial Vehicles), sembrano avere ben poco futuro. Abbandonati i segmenti B, C, le wagon e le grandi berline si palesa il fallimento sostanziale della gestione Marchionne, al di là dell’esaltazione di uno degli obiettivi, l’azzeramento dei debito. Non solo del debito. Azzeramento di tutto. Della Lancia. Dell’Abarth. Non solo della Fiat, dell’auto italiana e della sua tradizione. 

Sergio Marchionne ha lasciato, è innegabile, un’impronta profonda per come ha ribaltato – almeno in parte – le sorti di un gruppo che nessuno pensava potesse sopravvivere. L’ha presa in mano nel lontano 2004, quando era sull’orlo del crac e la GM spendeva una fortuna pur di togliersela dai piedi. La Fiat con lui, l’uomo con il maglione, è diventata FCA, dopo che il finanziere abruzzese, emigrato ragazzino a Toronto, ha compiuto il salto dimensionale attraverso l’acquisizione della Chrysler, in grave crisi e molto agevolata da Obama: è stata una via d’accesso al ricco mercato Usa. L’area Nafta (Usa, Canada, Messico ) è la punta di diamante del Gruppo. I successi vengono dalle Jeep, RAM pick-up (qualcosa anche da Maserati) venduti in Nord America. Ma l’epopea del risanatore per eccellenza non è mai riuscita a produrre utili in quella che una volta era la vecchia Fiat Auto, oggi FCA Italy. La società raggruppa le attività industriali in Italia, Europa, Turchia e Sudamerica ed è un pozzo senza fondo di perdite, nonostante i ricavi in crescita.  

 I marchi Fiat e Lancia chiuderanno con utili operativi in perdita pure nel 2019. La stessa Alfa Romeo è previsto che lavori in perdita anche nel 2018. Fca Italy lascerà di fatto l’Italia. I “resti” di Fiat traslocheranno in Polonia, mentre in Italia rimarranno (pare) alcune produzioni Jeep, Alfa, Maserati, di ‘gamma alta’,  premium. Un disimpegno che appare figlio di quella stessa incapacità di risollevare le sorti della Fiat. Forse decenni di errori inesorabilmente accumulatisi.

Il continuo, infinito ricorso alla cassa integrazione (caro ad impresa e sindacati, ma che grava su tutto il popolo italiano) negli stabilimenti di Cassino, Mirafiori e Grugliasco, pur in presenza di modelli nuovi o recenti (Alfa Romeo Stilo e Giulia; Maserati Levante e Ghibli), sembra esemplificarlo. Inesorabilmente si sta chiudendo un ciclo.  

Marchionne era arrivato alla guida della Fiat con il colosso torinese ‘tecnicamente fallito’. Dopo la fusione con Chrysler, tuttavia l’azienda di Torino è diventato il settimo Gruppo automobilistico mondiale. Se sono molti i successi ottenuti dal manager italo-canadese, egli sarà ricordato anche per quello che non è riuscito a fare: macchie di una storia manageriale peraltro molto importante. L’uomo si è identificato con l’enorme costruzione di valore finanziario attuata, proporzionalmente molto maggiore rispetto alla costruzione di valore industriale. Come grandezza l’unico segmento industriale paragonabile alla realtà finanziaria è stata Jeep. Sul resto, invece, la crescita della realtà industriale non è risultata raffrontabile alla crescita di quella  finanziaria. Basti pensare all’Alfa Romeo ed alla Maserati, che hanno assunto una maggiore compattezza e una maggiore solidità rispetto ad un tempo, ma che non sono diventate una reale alternativa all’Audi, alla Bmw ed alla Mercedes.

Il Capital Markets Day è andato in scena a Balocco lo scorso 31 maggio. Marchionne, sotto il maglione, ha sfoggiato la cravatta, come promesso: a giugno l’indebitamento industriale è stato azzerato. Il ‘piano industriale 2018-2022 del gruppo FCA’ è stato svelato e descritto nei dettagli. Prevede investimenti per 45 miliardi di euro, 9 dei quali dedicati all’elettrificazione, per 29 nuovi modelli. I motori a gasolio saranno abbandonati entro il 2021 su tutti i modelli, sostituiti dall’ibrido. E Marchionne ha assicurato di voler lasciare il timone di FCA nel 2019.

La Fiat, che molto ha dato a Chrysler, in termini finanziari e tecnologici, rimane un’entità assai ridotta ed essenzialmente for export (nel Terzo Mondo e parzialmente. In Messico e Dubai, ad esempio, l’ultima Tipo, del 2016, viene commercializzata come Dodge Neon), in balìa di acque assai pericolose, lontano da Torino, immagino per sempre. Le auto ancora con tale marchio saranno tutte costruite all’estero. 

Sergio Marchionne aveva esposto in passato, con cruda chiarezza, i tre motivi che, a suo avviso, allontanavano la Fiat dall’Italia: relazioni sindacali complicate e difficili, normative penalizzanti per l’export, una burocrazia lenta, farraginosa, incompatibile con le dinamiche degli scambi nel mondo globalizzato. “Mi piacerebbe capire perchè in America gli operai mi ringraziano per avergli salvato la pelle e qui, invece, vorrebbero farmela, la pelle”, aveva ripetuto più volte. Anni di scelte impopolari, di rotture nelle tradizionali relazioni industriali e sindacali, di lavoro sul prodotto e di allontanamento pressoché definitivo dall’Italia.

Come recita il vecchio detto: ‘l’uomo propone e Dio dispone’. A fine giugno Sergio Marchionne entra all’Ospedale Universitario di Zurigo per un intervento chirurgico alla spalla che appare senza rischi. Ma egli vive da allora in una sorta di cono d’ombra. Il problema di salute è, purtroppo, molto più grave. Il 21 luglio viene convocato un CdA straordinario, d’urgenza, al Lingotto (anzi tre CdA), mentre si diffondono tesi giornalistiche sullo stato di “coma irreversibile” del manager. A fine pomeriggio viene diramato un comunicato stampa ufficiale di FCA:

“In riferimento alle condizioni di salute di Sergio Marchionne, Fiat Chrysler Automobiles N.V. comunica con profonda tristezza che in settimana sono sopraggiunte complicazioni inattese durante la convalescenza post-operatoria del Dr. Marchionne, aggravatesi ulteriormente nelle ultime ore. Per questi motivi il Dr. Marchionne non potrà riprendere la sua attività lavorativa. Il Consiglio ha deciso di accelerare il processo di transizione per la carica di CEO in atto ormai da mesi e ha nominato Mike Manley Amministratore Delegato. ..Manley e la squadra di management lavoreranno alla realizzazione del piano di sviluppo 2018- 2022 presentato a Balocco il 1 giugno scorso, che assicurerà a Fiat Chrysler Automobiles un futuro sempre più forte e indipendente”.

 

Manley è nato a Edenbridge, nel Regno Unito, il 6 marzo 1964. Nel 2009 il manager britannico è stato nominato CEO del marchio Jeep e responsabile del brand Ram. Dal 2011 fa parte del Group Executive Council, l’organismo del gruppo che prende le decisioni operative sul business. Manley ha il merito di essere il numero uno del brand su cui FCA sta puntando maggiormente e l’aver portato le vendite di Jeep dalle 337 mila del 2009 ai livelli attuali, passando per quota 731.565 nel 2013 e 1 milione nel 2014. Dall’ottobre del 2015, Manley è diventato responsabile anche del marchio Ram. Un manager esperto di vendite, non di finanza come Marchionne.

Contemporaneamente il Consiglio di Amministrazione della Ferrari ha deciso di nominare John Elkann Presidente e proporrà all’Assemblea degli azionisti di nominare Louis C. Camilleri,  Amministratore Delegato. Nato ad Alessandria d’Egitto da una famiglia maltese, nazionalità svizzera, molti anni in Philip Morris, già membro del board Ferrari. Quello di  CNH Industrial (la multinazionale  operante nel settore dei capital goods; progetta, produce e commercializza macchine per l’agricoltura, movimento terra  e costruzioni, veicoli industriali e commerciali, autobus e mezzi speciali, oltre ai relativi motori e trasmissioni, propulsori per applicazioni marine) ha affidato la Presidenza, anch’essa detenuta da Marchionne, a Suzanne Heywood, inglese, 49 anni, laureata in Scienze ad Oxford e con un dottorato a Cambridge, esperta di finanza.

Anche per Torino una morte annunciata ed alla fine in retta d’arrivo. Mi spiace. Nella vecchia Capitale dei Savoia, si è andato, poco per volta, smarrendo un patrimonio antico di “cultura del lavoro” ed oggi molti aspettano gli ammortizzatori sociali, percepiti ormai come un diritto assoluto o, addirittura, il “reddito di cittadinanza” da qualcuno sciaguratamente promesso prima delle ultime elezioni. Variazione, per alcuni, sul tema “la fabbrica che non c’è più”, “terziario avanzato” ecc. in ‘sinistrese’ aggiornato. Che bello! Ma è un approccio falso, illusorio. Altrove le fabbriche ci sono, eccome, modernizzate, ed uno shopping semmai rovina i piccoli commercianti, non sostituisce mai un opificio. Serve solo a svuotare, ancor di più, il cervello…

Si è diffusa, al posto della vecchia industria, con le sue durezze e la sua necessaria disciplina, ormai tramontata l’aspirazione alla rivoluzione, l’idea di un vago sociologismo progressista, post-sessantottino, che vorrebbe rimuovere l’idea della fabbrica, non solo del capitalismo, sostituita da tavoli di discussione e punti vendita, da un vacuo chiacchiericcio ripieno di diritti vecchi, nuovi ed immaginari, spesso ingenui o superficiali, sfornati giornalmente come cornetti per il cappuccino, sullo sfondo di una indefinita “open society” liquida, dove c’è posto per tutti, assistenza e solidarietà teorica, ma suadente e sconfinata, anche se non si capisce chi mai dovrebbe pagarne alfine il conto. Con l’uscita di scena di Marchionne tale aspirazione non ha neppure più un “nemico” visibile, l’italo-canadese che, come sovente succede agli emigranti di successo, tendeva a ingigantire virtù e meriti delle nuove patrie americane e, contemporaneamente a magnificare difetti e colpe di quella lasciata. Compreso l’inglese, giudicato lingua razionale e concisa, non l’italiano, barocco, pieno di svolazzi e sfumature… 

In fondo io credo che quella Fiat fosse anche “la mia FIAT”, non solo “la Fiat”; cioè un sentimento di attrazione e possesso. Amavo le automobili. Da bambino mi piaceva accarezzare con la mano le carrozzerie delle belle vetture esposte nel grande salone nerviano durante l’annuale Salone dell’Automobile, al Valentino, sulle cui vernici brillanti si riflettevano le mille luci del soffitto curvo: come per catturarne l’anima.

*già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay

Gianni Marocco*

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