La storia. Giovanni Giolitti a 90 anni dalla morte

Giovanni Giolitti

Nella casa familiare di Cavour, cittadina situata all’inizio della valle Po, in provincia di Torino, moriva il 17 luglio 1928, a quasi 86 anni di età, Giovanni Giolitti, più volte Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro del Regno d’Italia. Il periodo storico durante il quale egli esercitò la sua guida politica (fu cinque volte e, complessivamente, per oltre dieci anni Capo del Governo, tra il 1892 ed il 1921) verrà definito “età giolittiana”.  Un personaggio autorevole ed ancora misconosciuto e controverso.

L’Italia, un Paese emotivo, amante della retorica nazionalista e dell’iperbole, poco poteva apprezzare la sobrietà piemontese ed il pragmatismo di un Giolitti, asciutto, di poche parole, gran commis di uno Stato liberale; insensibile alla teatralità del potere, scevro di demagogismi. Neppure il suo nuovo re, dal 1900 Vittorio Emanuele III, pure per tanti versi simile a lui, l’aveva in particolare simpatia. Gli uomini alla Giolitti, che non adulano, non mentono per compiacere, e che per di più non fanno parte di logge massoniche, in genere non sono apprezzati. Al massimo si rispetta la loro conoscenza dell’ufficio. Non a caso la massima onorificenza sabauda, il Collare dell’Annunziata, gli venne concessa nel 1904, alla nascita dell’erede al trono Umberto di Savoia, quale “Notaio della Corona” rogante l’atto di nascita, poi più nulla…mentre tanti altri, per cariche  inferiori, venivano nominati principi, duchi, marchesi. Ma forse, allergico com’era agli orpelli, alieno dalla mondanità e dai salotti intellettuali, alla moda, egli neppure volle! 

Rappresentante emblematico di un’Italia povera, ma dignitosa e civile, Giolitti, laureatosi in Legge a soli 19 anni, con una straordinaria competenza amministrativa, non disdegnava di farsi rivoltare la lunga giacca (il famoso palamidone), anche quando era da anni Capo del Governo, ed altrettanto sprezzava i furibondi attacchi politici, che gli venivano mossi da destra e da sinistra, e che giunsero al punto di invocarne il linciaggio, non solo le caricature che ritraevano la sua figura alta, massiccia, calva, baffuta.  

Per tutta la sua longeva esistenza egli fu riservato, semplice, discreto, scettico circa la natura degli uomini e l’Italia. Celebre quanto scrisse alla figlia nel 1896: 

“Un governo è il portatore di secoli di storia e la peggiore di tutte le costituzioni sarebbe quella che venisse studiata in base a principi astratti e non fosse adatta in tutto e per tutto alle condizioni attuali del paese. Il sarto che ha da vestire un gobbo se non tiene conto della gobba non riesce. Io non sono conservatore, tutt’altro, vedo troppo chiaro quanto vi è di brutto e di spregevole nell’andamento attuale della politica italiana, ma non voglio aiutare chi ci porterebbe a cose peggiori” (Memorie, cap. X. p.209).

Giolitti fu nondimeno un vero “Padre della Patria”. Di grande intelligenza, abilità, criterio pratico, scaltramente furbo e spregiudicato nell’agone della politica, quanto personalmente onesto, venne presto dimenticato. Soprattutto perché statisti del suo stampo, pacati e lungimiranti, estranei alle utopie, risultano asincroni rispetto alle ansie, agli slogan, al vociare confuso del loro tempo. Giolitti rappresentava, da vivo e da morto, l’Italia non gradita ai massimalisti di tutte le sponde e di tutte le risme. Figura centrale nell’Italia di primo Novecento è stato vittima di una damnatio memoriae che ne ha oscurato l’alta statura di livello internazionale.

Ha scritto Emilio Gentile, nel “Dizionario Biografico degli Italiani”:

‘Giovanni Giolitti nacque a Mondovì (Cuneo) il 27 ottobre 1842, da Giovenale, cancelliere del tribunale di Mondovì, e da Enrichetta Plochiù. La famiglia paterna, appartenente alla media borghesia impiegatizia – il nonno Giovanni era stato notaio a San Damiano di Macra – proveniva da Acceglio, un villaggio di contadini montanari. Di origine francese era il ceppo materno, i Plochu, piemontesizzato in Plochiù, famiglia dell’alta borghesia torinese. Il padre di Enrichetta, Giovanni Battista, era stato Procuratore Generale a Torino durante la dominazione francese. Giolitti aveva un anno quando rimase orfano del padre. La madre decise di portare il piccolo a Torino, ad abitare in un appartamento in via d’Angennes, poi via Principe Amedeo, insieme con i suoi quattro fratelli scapoli. Patriottico, liberale e borghesemente austero era l’ambiente nel quale il piccolo crebbe. Vide spesso il Cavour, ma non sentirà mai il patriottismo come un’esaltazione ideale; e da uomo pragmatico manifestò apertamente la sua antipatia per la vacua retorica nazionalistica. Conseguita la laurea in giurisprudenza, egli nel 1862 entrò in Magistratura, dapprima senza stipendio, col grado di aspirante al Ministero di Grazia e Giustizia, e successivamente come addetto alla Segreteria generale nello stesso Ministero. Nel 1864 si trasferì a Firenze, Capitale dove il governo aveva traslocato, ma due anni dopo chiese ed ottenne di ricoprire l’incarico di Sostituto Procuratore del re al tribunale di Torino. Nel febbraio 1869, Giolitti tornò a Firenze, come Segretario capo della Commissione centrale delle Imposte dirette. Un mese prima aveva conosciuto la futura moglie, Rosa Sobrero, diciannovenne, nipote del chimico Ascanio Sobrero, inventore della nitroglicerina, e figlia di un magistrato. Dalla loro unione nacquero sette figli: Giovenale, morto a pochi mesi, Enrichetta, Lorenzo, Luisa, Federico, Maria e Giuseppe’.  

Quintino Sella, l’uomo politico che, forse, rappresentò il modello di statista più congeniale a Giolitti, lo nominò quindi Capo sezione alle Finanze, e dal 1870 al 1871 lo volle suo segretario particolare. Dal nuovo Presidente del Consiglio, Depretis, egli fu nominato reggente della Direzione generale delle imposte e, nel 1877, segretario generale alla Corte dei Conti, dove rimase fino al 1882. Ciò gli permise di sviluppare e affinare “una educazione amministrativa efficacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo dello Stato; ciò che mi riuscì assai utile quando quel meccanismo dovetti muoverlo io stesso” (Memorie, I, p. 26). Dal 1877, con il trasferimento del Ministero delle Finanze nella nuova sede romana, anche la famiglia Giolitti traslocò a Roma. Il funzionario piemontese non fu conquistato dal fascino della “città eterna”, troppo chiassosa ed in contrasto con la quiete operosa della sua Torino. Nel luglio 1882 fu nominato Consigliere di Stato, incarico che ricoprì per pochi mesi, poiché accettò la candidatura politica per le elezioni per la XV legislatura. Come capolista nelle prime elezioni a scrutinio di lista, che si svolsero nel 1882, egli ebbe un notevole successo personale. Alla Camera aderì alla Sinistra costituzionale. 

I tre anni e mezzo di durata della legislatura (22 novembre 1882 – 27 aprile 1886), furono un periodo “di affiatamento e di noviziato”. Più volte, negli anni successivi, Giolitti sostenne la necessità di partiti organizzati, con programmi chiari e precisi per il funzionamento di un corretto sistema parlamentare. In quel periodo egli definì gli elementi essenziali della sua visione della  politica interna ed internazionale: 

“Due sono i sistemi ai quali si può informare la sua condotta politica una nazione. Quella che suole chiamarsi la politica imperiale e la politica democratica. La prima nei rapporti coll’estero è intraprendente, invadente, tende ad allargare i confini dello Stato, a creare colonie non solo commerciali, ma militari; in una parola, ha di mira il predominio sulle altre nazioni. La politica interna, coordinata con quella estera, ha di mira la potenza economica del Paese come base della potenza politica. Una politica imperiale non può farsi senza destinare all’esercito e alla marina le maggiori risorse del Paese e senza una direzione politica costantemente uniforme; essa richiede quindi un forte governo che abbia l’appoggio di una potente aristocrazia la quale, a sua volta, non può esistere senza la grande proprietà. Ne sono conseguenza poca libertà all’interno e il sacrificio del privato al pubblico interesse. La politica democratica tende invece ad assicurare il benessere del maggior numero di cittadini; deve perciò favorire l’istruzione pubblica, l’industria, l’agricoltura, ridurre al necessario i pubblici pesi, provvedere alle classi lavoratrici, garantire la libertà. Nei rapporti con l’estero deve avere di mira il mantenimento della pace sempre quando è conciliabile con la dignità e gli interessi vitali del Paese. Esercito e Marina devono essere proporzionati a questo scopo”. 

Giolitti fu nominato Ministro del Tesoro nel secondo Governo Crispi, nel 1889, assumendo in seguito anche l’interim delle Finanze. Nel 1890 tuttavia si dimise, per una questione    legata al bilancio, ma anche a causa di un generale disaccordo sulla politica coloniale intrapresa da Crispi. Nel 1891 egli si pronunciò per una riforma delle imposte per portarle da proporzionali a progressive. Il programma giolittiano fu di restringere, quanto più possibile, le spese per ridurre il disavanzo finanziario. Dopo la caduta del governo Crispi ed un breve governo di Rudinì, il Re Umberto I, su consiglio di Urbano Rattazzi, il 16 maggio 1892 si risolse ad affidare l’incarico di formare il nuovo governo a Giovanni Giolitti.  Che fu tuttavia costretto alle dimissioni dopo poco più di un anno, il 15 dicembre 1893, messo in difficoltà dallo scandalo della Banca Romana. Ed in politica estera il proposito giolittiano di riavvicinamento alla Francia naufragò dopo l’eccidio di trenta operai italiani ad Aigues-Mortes, in Provenza, nell’agosto 1893. I fatti provocarono in Italia delle manifestazioni antifrancesi (fu dato l’assalto all’Ambasciata di Francia) e violente dimostrazioni dei socialisti, dei radicali e degli anarchici.

Successivamente, con i due Governi Pelloux (1898 – 1900), ci fu, infatti, un tentativo di restaurazione autoritaria, ispirato da Sidney Sonnino, che però fallì per l’opposizione congiunta dell’estrema sinistra e della sinistra costituzionale, della quale Giolitti era il principale esponente. Per il medesimo, per superare la grave crisi politica e morale, era necessario ristabilire le prerogative del Parlamento, prestando attenzione alle esigenze delle classi popolari, al fine di rafforzare l’autorità ed il prestigio delle istituzioni monarchiche, mantenendo fede all’origine plebiscitaria dello Stato unitario. Di questa nuova politica liberale egli divenne il principale artefice quando tornò al Governo, come Ministro dell’Interno nel Governo Zanardelli, dopo il regicidio di Monza. Egli introdusse subito un sostanziale cambiamento nell’atteggiamento del governo di fronte ai conflitti sociali. Garantì la libertà di associazione ed assunse una posizione di neutralità in occasione degli scioperi, che di fatto si risolveva a favore dei lavoratori, incoraggiando la loro azione associativa e rivendicativa.

Giolitti è ormai uno statista che mira alle riforme. Il 3 novembre 1903 è alla guida del suo II Governo. La sua politica voleva essere democratica e conservatrice allo stesso tempo, nel senso di rafforzare lo Stato monarchico ed il regime liberale, promuovendo una più ampia partecipazione delle masse alla politica ed un miglioramento delle loro condizioni attraverso una libera competizione fra le classi sociali. Alla base di questo disegno vi era la convinzione che l’ascesa del proletariato era ineluttabile ed inevitabile la transizione dallo Stato liberale tradizionale ad un regime più democratico.

Come bene ha evidenziato Emilio Gentile:

‘Nel quadro di questo disegno politico, uno degli obiettivi principali che Giolitti si propose di conseguire, come tappa fondamentale verso l’integrazione delle classi lavoratrici nello Stato unitario, era l’inserimento della Sinistra radicale e del socialismo riformista nell’area del governo, emarginando le ali estreme repubblicana e socialista rivoluzionaria. Con lo stesso intento, egli cercò di pervenire anche al superamento della contrapposizione fra lo Stato liberale e la Chiesa, che fin dall’unificazione aveva tenuto lontano i cattolici dalla vita politica, per coinvolgerli, come contrappeso alla Sinistra, nel suo progetto di ampliamento e consolidamento del consenso popolare alle istituzioni, emarginando l’ala estrema dei cattolici intransigenti, negatori dello Stato nazionale’.

Un tentativo per coinvolgere esponenti del partito radicale e del partito socialista non ebbe successo. Giolitti li invitò ad entrare nel Governo, assumendosi le loro responsabilità storiche (lo fece nuovamente nel 1911 con Bissolati). Invano. “Le masse”, gli rispose Filippo Turati, “non erano ancora mature”. La disistima sconfinante nel disprezzo che da allora maturò per il socialismo condizionò la sua politica successiva. Nel 1904 le forze massimaliste, in odio a Giolitti, organizzarono il primo sciopero generale. Nel febbraio 1923, ai socialisti che andranno ad implorarlo di aiutarli a rovesciare Mussolini, Giolitti risponderà che “si erano sempre condotti da vili e che ora si meritavano il governo che c’era”!

‘Il secondo governo giolittiano ebbe il sostegno di una maggioranza larga ed eterogenea, che gli consentì di portare a compimento una proficua attività legislativa di provvedimenti nel campo sociale, amministrativo, scolastico, sanitario. Non ebbe invece attuazione nessuna delle grandi riforme – come la riforma tributaria – che per anni egli aveva indicato come necessarie alla realizzazione di una politica democratica di risanamento politico, di rinnovamento amministrativo e di perequazione fiscale. Vennero successivamente nominati alla Presidenza del Consiglio il giolittiano Fortis, israelita poi convertito al cattolicesimo, (1905-1906), quindi Sonnino (1906), anglicano ed anch’egli di origine israelita, al quale anche Giolitti diede appoggio. Giolitti costituì il suo terzo ministero il 29 maggio 1906 e rimase in carica fino all’11 dicembre 1909, per tornare poi ancora a guidare il governo (il suo IV) dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914, dopo la parentesi di un secondo governo Sonnino e di un governo presieduto da Luzzatti, un altro israelita. Furono, questi, gli anni della cosiddetta “dittatura parlamentare” del “giolittismo”, cioè di un sistema di potere che lo statista piemontese basava su maggioranze parlamentari ottenute attraverso vincoli di fedeltà personale, con l’immissione frequente di nuovi senatori e con le pesanti ingerenze nelle elezioni politiche, specialmente nelle regioni meridionali, per assicurare la vittoria ai candidati governativi.’ (da Emilio Gentile, op. cit.).

Il IV Governo Giolitti nacque come il tentativo più vicino al successo di coinvolgere al governo il Partito Socialista, allora in mani riformiste, che infatti votò la fiducia. 

Durante gli anni della sua lunga permanenza al potere, Giolitti fu circondato da sentimenti contrastanti, una opinione pubblica divisa tra giolittiani ed antigiolittiani: esaltato dagli uni come il più valente statista italiano dopo Cavour, esecrato dagli altri come un corruttore della politica italiana, un “ministro della malavita”, come lo definì Salvemini nel 1910. L’antigiolittismo fu un ampio e composito fenomeno politico e culturale, che coinvolse soprattutto le nuove generazioni, deluse dall’empirismo, dal trasformismo giolittiano e dalla cauta politica di moderato riformismo, che sembrava ignorare mete più alte da additare alla nazione. Dal mondo liberale Calandra, Sonnino, Albertini ritennero Giolitti un pragmatico, un mercanteggiatore con le forze politiche opposte, pronto a cambiare fronte pur di raggiungere i propri scopi; gli economisti liberisti come Einaudi, De Viti De Marco, Pareto non condivisero la sua politica protezionista e le intese con i socialisti. Ed ancora meridionalisti, come Fortunato e Salvemini, sindacalisti rivoluzionari come Mussolini ed intellettuali come Amendola e Croce, non appoggiarono la politica giolittiana.

Incurante delle critiche, Giolitti proseguì, tuttavia, la sua politica riformatrice; furono varate leggi importanti, come la conversione della rendita, la legge sullo stato giuridico degli impiegati, le leggi speciali per la Calabria, la Sicilia e la Sardegna, provvedimenti per migliorare la legislazione sul lavoro delle donne e dei fanciulli, il progetto per il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e, soprattutto, fu approvata la legge elettorale, che estendeva il suffragio maschile, portando il numero degli aventi diritto al voto da 3.329.147 a 8.672.249. L’approvazione della riforma elettorale cadde nel periodo in cui l’Italia era impegnata nella guerra contro la Turchia, per la conquista della Libia.

L’impresa coloniale, decisa dopo l’occupazione francese del Marocco, fu intrapresa da Giolitti non “per entusiasmo, ma unicamente per ragionamento”, giustificando l’impresa con la “fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire”. Con la conquista della Libia si raccoglieva il frutto di una politica estera che, pur confermando l’alleanza della Triplice con le Potenze Centrali, Austria-Ungheria e Germania, fu orientata da Giolitti verso il miglioramento dei rapporti con la Francia, il mantenimento della relazioni cordiali con l’Inghilterra ed il riavvicinamento alla Russia, che non aveva dimenticato la Guerra di Crimea alla quale aveva partecipato il Regno di Sardegna.

‘L’impresa coloniale ebbe un ampio consenso da parte dell’opinione pubblica liberale e cattolica, esaltò il nascente movimento nazionalista, convertì al mito nazionale alcuni esponenti dell’Estrema Sinistra, ma suscitò anche una violenta opposizione da parte del partito socialista, facendo emergere, all’interno di questo, una nuova sinistra rivoluzionaria, capeggiata da Benito Mussolini, che conquistò, nel 1912, la direzione del PSI e pose il partito, definitivamente, nella direzione della rivoluzione contro lo Stato borghese. Veniva così meno il principale punto di riferimento del disegno politico giolittiano mirante all’ampliamento del consenso popolare al regime monarchico liberale, attraverso l’inserimento del partito socialista nell’ambito costituzionale. Un altro fondamentale punto di riferimento del disegno politico giolittiano venne meno, a sua volta, con le elezioni politiche, le prime a suffragio allargato, che si tennero nel 1913, e che modificarono il quadro politico. Infatti, l’accordo elettorale fra oltre duecento candidati liberali e l’Unione Elettorale Cattolica (il Patto Gentiloni) per fronteggiare l’avanzata della Sinistra, contribuì notevolmente all’indebolimento del “giolittismo”, mentre, per reazione, diede impulso, anche all’interno del movimento cattolico, all’affermazione di correnti politiche antigiolittiane, di cui fu principale interprete  don Luigi Sturzo’ (da Emilio Gentile, op.cit.).

Dalle elezioni del 1913 la “maggioranza giolittiana” uscì indebolita e trasformata, mentre si rafforzarono le opposizioni del socialismo, del sindacalismo, del nazionalismo, del liberalismo conservatore, minando i pilastri su cui poggiava il sistema giolittiano. La nuova situazione fu descritta con efficacia dal deputato sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola alla Camera il 9 dicembre 1913, sia pure con la presuntuosa convinzione del parvenu, del “rottamatore”: 

“Se ne vada, onorevole Giolitti, e creda che non si può fare diversamente! La situazione giolittiana che spiegò la sua lunga permanenza al potere, ora non c’è più. Il Paese le è cresciuto sotto mano, le è scappato di tutela, parla un nuovo linguaggio. Col passato che se ne va, ella, onorevole Giolitti, deve fare la cortesia di tenergli compagnia. Il giolittismo diviene una superfluità. Esiste un’Italia cattolica, esiste un’Italia socialista, esiste un’Italia imperialista: non esiste un’Italia giolittiana. L’Italia giolittiana è una mediocre combinazione parlamentare, nata fra i corridoi e l’aula, buona soltanto ad impedire, incapace di creare. Questa Italia deve sparire”.

Con il nuovo Governo di Antonio Salandra (marzo 1914), espressione della destra liberale, si evidenzia la disaffezione di larghi settori del ceto medio dal regime liberale, che assunse alla vigilia della Grande Guerra, e nella mobilitazione interventista, i caratteri violenti di una “rivolta antigiolittiana”. All’origine di questa rivolta non vi erano tanto intenti reazionari ed autoritari, quanto la convinzione che il sistema giolittiano fosse ormai inadeguato a rinnovare la nazione ed a rendere effettivo il trapasso dallo Stato liberale allo Stato democratico.

Allo scoppiare della Grande Guerra, il 28 luglio 1914, Giolitti fece pubblica  professione di neutralità. Dinanzi alla conflagrazione europea egli capì che la guerra per l’Italia sarebbe stata una catastrofe: 

“Certo”, scrisse in una lettera pubblicata da La Tribuna il 24 gennaio 1915, “io considero la guerra non come una fortuna (come i nazionalisti), ma come una disgrazia, la quale si deve affrontare solo quando è necessaria per l’onore e per i grandi interessi del Paese. Non credo sia lecito portare il Paese alla guerra per un sentimento verso altri popoli. Per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del Paese. Ma, quando è necessaria, non esiterei ad affrontare la guerra e l’ho provato. Credo molto – ma nel testo del giornale ‘molto’ era stato mutato in ‘parecchio’,  per svilirlo – nelle attuali condizioni d’Europa potersi ottenere senza guerra”.

Essendo in Parlamento i neutralisti in prevalenza, il 13 maggio 1915 Salandra rassegnò le dimissioni e Giolitti rifiutò di assumere l’incarico di formare il nuovo governo, ritenuto contrario all’entrata in guerra dell’Italia, mentre esplodevano nella capitale violente dimostrazioni interventiste proprio contro di lui, bersaglio di un odio feroce. Con un infuocato comizio, Gabriele D’Annunzio incitò la folla a far giustizia sommaria del “mestatore di Dronero”, “quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino”, che “tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano”. La folla invase con violenza lo stesso edificio della Camera. Il questore di Roma avvertì Giolitti che non era in grado di garantire la sua incolumità. Quello fu il momento cruciale nel quale la libertà del Parlamento venne conculcata, svilita, umiliata. 

Durante  le  consultazioni,  Giolitti  ammonì  il  sovrano  che  la  maggioranza  era 

contraria all’intervento, che l’Esercito non era pronto e che la guerra avrebbe potuto portare ad un’invasione e persino ad una rivoluzione. Ma quando il re gli illustrò il contenuto del Patto di Londra (aprile 1915), sottoscritto in gran segreto da Salandra e Sonnino, Giolitti comprese che ormai il danno era fatto. Vittorio Emanuele  confermò Salandra; si evidenziava una lacuna dello Statuto Albertino, che conferiva al sovrano, e non al Parlamento, il potere di dichiarare la guerra. 

Un’ulteriore debolezza di Giolitti fu, probabilmente, il non essere massone. All’epoca della prima guerra mondiale, forte di circa venticinquemila affiliati, molti dei quali figure di spicco del mondo politico ed istituzionale, dei vertici militari, degli ambienti economici e di quelli accademici, la massoneria, nelle sue due maggiori confessioni,  rappresentava un attore assai importante della scena pubblica italiana.  L’ambiente che partorì il “Patto di Londra”, che ruppe l’equilibrio politico del “sistema Italia”, e permise alle forze interventiste – per differenti obiettivi – di scatenare la piazza per costringere le Camere a ratificare l’accordo. L’avversario politico da colpire era il simbolo del sistema, Giolitti. Egli sfuggì ad un attentato mortale, ma la sua delegittimazione politica fu un momento essenziale di quel “colpo di governo” messo in atto nel “maggio radioso”, con l’esaltazione della “Quarta Guerra d’Indipendenza”: la barbara Kultur tedesca, difesa dal baluardo imperiale degli Asburgo e degli Hohenzollern, sarebbe stata finalmente sconfitta dall’ésprit français, legato, ovviamente, all’universalismo massonico… e antenato del “pensiero unico”! 

E fu anche per l’Italia l’immane, devastante, ed assolutamente non necessario, conflitto. Nonostante le sue convinzioni,  Giolitti si spese nel corso della guerra in difesa della patria, appoggiò lealmente lo sforzo bellico. Per quel “patriottismo” che per lui non era una formula vuota. La sua stella sembrava tramontata, ma il “biennio rosso” – indovinato e temuto dal vecchio politico,  il saggio ed inascoltato “conservatore illuminato” – la fece inaspettatamente tornare in auge. 

‘Nel giugno 1920, da più parti si invocò il ritorno al potere del vecchio statista per guidare il Paese, lacerato dallo scontro violentissimo fra socialismo rivoluzionario e radicalismo nazionalista. Il quinto governo Giolitti (16 giugno 1920 – 4 luglio 1921) fu accettato  dai partiti costituzionali, dai nazionalisti, dal movimento fascista (fondato da Mussolini nel marzo 1919) e dal partito popolare (fondato da Luigi Sturzo nel gennaio 1919). Del Ministero facevano parte esponenti liberali, radicali, socialriformisti, indipendenti. In politica estera,  Giolitti risolse le questioni rimaste aperte, come il contenzioso con l’Albania, ritirando le truppe italiane da Valona e da altre zone albanesi, e riuscì anche a risolvere, con il trattato di Rapallo (1920), i problemi di confine con la Jugoslavia, e quindi a liquidare la questione di Fiume, inasprita dopo l’occupazione della città da parte di D’Annunzio il 12 settembre  1919: il Capo del Governo fece sgombrare a cannonate il poeta dalla città. In questa circostanza, il Governo poté avvalersi della neutralità di Mussolini e del movimento fascista, che, a parte le proteste verbali, si astenne dal prendere concretamente le difese del poeta, fino ad allora acclamato dai fascisti quale duce e simbolo del radicalismo nazionale degli ex interventisti e della lotta contro la “vittoria mutilata”. Nello stesso periodo, Giolitti dovette fronteggiare anche la fase più acuta del “biennio rosso”, culminata nel settembre 1920 con l’occupazione delle fabbriche, percepita dalla borghesia come il preludio alla rivoluzione socialista ed alla conquista violenta del potere per instaurare la dittatura del proletariato, come preannunciato dal partito socialista nell’ottobre 1919. Egli applicò ancora una volta, come nel settembre 1904, la tattica del non intervento, rifiutando di far sgomberare con la forza le fabbriche occupate’ (da Emilio Gentile, op.cit.).

Un’altra volta a capo del Governo, Giolitti propose di modificare lo Statuto con un disegno di legge così concepito:  “I trattati e gli accordi internazionali, qualunque sia il loro oggetto, non sono validi se non dopo l’approvazione del Parlamento. Il Governo del Re non può dichiarare la guerra senza la preventiva approvazione delle Camere”. Lo scopo era chiarissimo:  limitare le prerogative del sovrano ed allargare i poteri del Parlamento, impedendo che l’Italia fosse di nuovo trascinata in guerra senza il suo consenso. Un anno prima, il 12 ottobre 1919, aveva anticipato il proposito con il discorso di Dronero, il suo collegio elettorale. Il discorso gli fece guadagnare un altro soprannome spregiativo: il “bolscevico dell’Annunziata”. Nel 1948 Palmiro Togliatti elogerà quelle parole, definendole come l’espressione più avanzata della borghesia italiana. Ed effettivamente la Camera approvò la modifica della Carta fondamentale proposta dal Presidente del Consiglio; in seguito a tale scelta, ovviamente non gradita dalla Corona, si guastarono irrimediabilmente i rapporti fra Giolitti e Vittorio Emanuele III. Dopo la caduta del suo V Governo, mentre acquisivano sempre più importanza partiti non integrabili nel sistema liberale, come i socialisti (e poi i comunisti), i popolari ed i fascisti, il Partito Liberale, costituito legalmente solo l’8 ottobre 1922,  era sempre più diviso e privo di un’adeguata iniziativa. 

Quando cadde il Governo Bonomi e mentre la situazione nel Paese era sempre più grave a causa del clima da guerra civile, il nome di Giolitti fu nuovamente quello più speso per indicare il nuovo Presidente del Consiglio. Su di esso però arrivò il veto del Partito Popolare guidato da don Sturzo (anche a causa del provvedimento sulla nominatività dei titoli azionari del precedente Governo Giolitti, fortemente avversato dal Vaticano). Nelle ore cruciali della “Marcia su Roma”, nell’ottobre 1922, Giolitti, era pronto ad assumere un nuovo incarico con una rappresentanza del partito fascista,  dichiarando la propria disponibilità a raggiungere Roma con qualsiasi mezzo, ma si trovò di fronte a un nuovo veto del cattolico Partito Popolare. Fu la fine definitiva dell’ “età giolittiana”, come scriverà Mario Isnenghi nel 2011, “un’età di pace e di sviluppo, ispirata al gradualismo ed alla concretezza, però anche un vulcano che covava sotto la cenere”.

Giolitti votò a favore del I Governo Mussolini, che era ancora formalmente nella legalità dello Statuto Albertino. Avversario della proporzionale, il vecchio statista fu favorevole alla Legge Acerbo (18.XI.1923) che introduceva il sistema maggioritario. Presidente della commissione incaricata di esaminare il progetto della riforma, rifiutò di presentarsi candidato alle elezioni indette per il 6 aprile 1924, nel “listone nazionale” egemonizzato dal partito fascista e preferì presentare una lista propria. Il suo discorso elettorale, tenuto nel collegio di  Dronero il 16 marzo 1924, fu una sobria apologia di tutta la sua esperienza politica ed una orgogliosa rivendicazione dei meriti storici del partito liberale che aveva governato il Paese dopo l’Unità, nelle “sue varie gradazioni, più o meno informate ai princìpi di democrazia, nelle alternazioni della destra e della sinistra, che avevano in comune i princìpi fondamentali”, attuando un “programma di patriottismo, di dignità nazionale, di tutela dei diritti di tutte le classi sociali”. 

Dopo la morte di Giacomo Matteotti, Giolitti criticò fortemente la “Secessione dell’Aventino”, sostenendo che la Camera era il luogo dove occorreva fare opposizione. A ottantatré anni Giovanni Giolitti si congedò definitivamente dalla politica, deluso, amareggiato. “La vita politica è una gran brutta vita”, scrisse in una lettera il 30 aprile 1927, “Io vi entrai senza volerlo: ma dovessi nascere un’altra volta piuttosto mi farei frate”. 

Giolitti visse gli ultimi anni solitario ed isolato a Cavour.  Si recò alla Camera l’ultima volta il 16 marzo 1928, per esprimere il suo voto contrario alla nuova legge elettorale: “Questa legge, la quale, affidando la scelta dei deputati al Gran Consiglio Fascista, esclude dalla Camera qualsiasi opposizione di carattere politico, segna il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”. Tre mesi dopo le sue condizioni di salute si aggravarono. Era piena estate. Lo raggiunsero i figli da Roma. Volle al capezzale un sacerdote al quale avrebbe sussurrato: “Sono nato cattolico ed intendo morire da cattolico”. Non mancò una inopportuna gazzarra di giovani fascisti nella via.

Forse, fu l’ultimo ad insegnare davvero il “senso dello Stato”. Lui, un conservatore illuminato, rappresentante di un notabilato spazzato via dai nuovi partiti di massa, dalle loro logiche ed organizzazioni, da uno Stato diverso da quello servito o immaginato, che aspirava ad essere nuovo e “totalitario”. La figura di Giolitti è quella di una vittima del “secolo breve”, secondo la formula di Hobsbawn, un’epoca di ‘guerre religiose’, ove le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche, il socialismo ed il nazionalismo.

(Cfr. Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, con uno studio di Olindo Malagodi,  Milano, Treves, 1922; “Centro Europeo Giovanni Giolitti” di Dronero (http://www.giovannigiolitti.it/home.asp); Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio, a cura di Aldo A. Mola e Aldo Ricci, Foggia, Bastogi Editrice, 2010). 

Gianni Marocco

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