Il commento (di C.Risè). Attenti alla alienazione da overdose di smartphone

Gli smartphone

Fate attenzione! C’è in giro una droga quasi irresistibile. 3/4 della popolazione dei paesi occidentali “si fa” di questa roba ormai lungo tutta la giornata, da poco dopo la sveglia a quando finalmente riesce ad addormentarsi (di solito con qualche aiuto chimico). La persona che cede a questa droga per qualche tempo sta benissimo, o così crede… Come se avesse il mondo in tasca: una sensazione di onnipotenza molto piacevole. L’impressione può durare anche abbastanza a lungo; ma la sua vita (soprattutto sociale) comunque cambia, anche se ci mette un po’ di tempo ad accorgersene. In seguito, la “roba” continua a piacere molto (anche perché i produttori la migliorano nel tempo, aggiungendo nuove sensazioni, potenzialità, funzioni, e esperienze), ma inspiegabilmente l’umore peggiora. Nello studio e lavoro si conclude meno. Il capo ti guarda sospettoso. Gli amici cominciano a girare alla larga, e anche tu li cerchi meno; ti accorgi di non avere tanta voglia di vederli. Poi comincia la depressione, e sono guai. Questa droga che sta devastando la tarda modernità occidentale è la tecnologia mobile: l’I Phone, con la sua corte di altri smart phone, ma anche i diversi tablet, portatili eccetera, ed i loro network prediletti. È la tecnologia venduta come la più socializzata della storia, perché ti collega con il mondo, peccato però che cancelli l’altro accanto a te. Sono quei dispositivi magici che fanno sì che una coppia salita insieme su un treno, aereo o qualsiasi altro mezzo, una volta seduta li accenda, e poi non parli né guardi l’altro fino alla stazione di destinazione. L’arnese digitale fa sparire l’altro, lasciandoti solo, e più o meno disperato, ancora di più delle altre altre droghe “tradizionali”. Lo fa lentamente, senza darti mal di testa (almeno per un po’), né farti vomitare o dare in escandescenze. La distruzione dell’altro avviene silenziosamente, dal profondo, come hanno raccontato psicologi e psichiatri, da Shirley Turke (La conversazione necessaria, Einaudi) a Jean Twenge dell’Università di San Diego, a Nicolas Carr. La dipendenza digitale infatti, sostituendo l’altro con una macchina, disattiva i nostri “neuroni specchio” le cellule cerebrali attraverso le quali sviluppiamo empatia, il sentimento che ci unisce e lega agli altri. L’altro, con la sua fisicità, faccia, smorfie, sorrisi, non c’è più. Quel che è peggio è che la macchinetta digitale mentre fa sparire l’altro, la persona in carne, ossa e sangue, ti piazza sullo schermo il mondo intero: naturalmente i tuoi amici, i commenti, le chat, le condivisioni. Ma anche i giochi, il porno, le notizie, le polemiche di prima serata, le figuracce Vip: tutto. Apparentemente una ricchezza infinita. In realtà, però, non c’è nessuno. I tuoi neuroni specchio non hanno nessun altro umano da rispecchiare. Non c’è calore. L’altro di questo strano rapporto è solo una macchina: un grumo di pixel. Inodore, insapore. Non ha sangue, ma circuiti, batterie. Tuttavia occupa un tale spazio nella tua giornata che ne sei emotivamente e affettivamente dipendente, senza di lei non combini niente, anche perché lei fa (quasi) tutto. Ed evita di addestrarti a fondamentali attività umane, tra le quali, ad esempio il fare conversazione, ormai arte di tempi passati. Ormai però sei talmente drogato, dipendente dal mondo artificiale, che ti va bene così. Anzi se mentre ti “fai” ti si presenta davanti qualcuno in carne ed ossa sussulti, sorpreso e impaurito. Dopo però, a lungo andare stai male. Perché, spiegano sociologi, psicologi, antropologi, ti manca il “faccia a faccia”, cioè l’altro vero. Manca la comunicazione con l’altra persona umana, con il suo vero corpo e voce, come tu hai il tuo. Quella uomo-IPhone (o equivalenti) è infatti una coppia inedita nella storia del mondo, dove chi ha più da perdere è l’uomo. Perché l’altra è una scatola, a volte di ottimo design, e con funzionalità interessanti. Ma l’uomo che ha sensi e cuore non è fatto per passare la sua giornata digitando su una scatola parlante. Non l’ha fatto per tutta la sua lunghissima storia (pare 2 milioni e mezzo di anni fa), forse non è neppure molto adatto per quello, anche se l’I phone è il prodotto di maggior successo dall’industrializzazione in poi. In ogni caso l’essere umano in questa anomala relazione soffre, dal cuore alla mente, allo stomaco ai genitali alla testa. Tutti gli organi vengono coinvolti in questa innaturale operazione e stanno piuttosto male. Per quanto si sia nell’epoca della visualizzazione, funzione molto coinvolta in questa dipendenza tecnologica, anche quando si contempla un bel piatto da chef stellato sul tablet, si vive una falsificazione e una privazione: quel piatto non puoi né mangiarlo, né annusarlo né leccarlo, i sensi (e gli organi) sono fuori gioco. Tempo perso. Però ormai sei dipendente, e quindi stai lì. A goderti piaceri molto celebrati, ma virtuali. Alla fine finti. I danni non sono solo psicologici o affettivi, anche se già questi tendono ad invadere ogni altro ambito dell’esistenza. Da quando queste scatolette hanno cominciato a diffondersi la produttività ha smesso di aumentare, poi è diminuita di mezzo punto all’anno. Nei ragazzi il problema è più grave: nella generazione Igen, cresciuta a smart phone, c’è un ritardo complessivo di maturazione di circa 4 anni, accompagnato da un aumento dei disturbi mentali, in particolare la depressione. Tanto che in Inghilterra, dove l’85% dei bambini ha uno smart phone, il direttore del Servizio Sanitario Simon Stevens ha chiesto che “i giganti del web condividano i costi degli interventi sanitari necessari a curare i disturbi di cui sono responsabili”. Che sono molti e vanno (oltre alla depressione) dall’anoressia all’autolesionismo, all’autoreferenzialità e alle varie forme di “narcisismo istrionico”, dove i ragazzi sono spinti dall’ansia di conquistare spazio sui social network a mettere in atto provocazioni forti e pericolose. I rischi di dipendenza da smart phone sono ormai riconosciuti nei gruppi sociali che hanno accesso a più informazioni), o in quelli con forti identità spirituali, come le Chiese cristiane ortodosse. Ma anche tra blogger famosi come Andrew Sullivan che all’apice della fama e del successo improvvisamente si è ritirato, spiegando poi così il suo gesto al New York Times: “Ogni minuto che mi immergevo a capofitto in un’interazione virtuale perdevo un incontro umano. Ogni secondo assorbito in qualche banalità era un secondo di meno da dedicare a qualche forma di riflessione, o di calma, o spiritualità”. Anche da questa droga si può insomma uscire come dalle altre, con un’identità più forte e alti obiettivi. Interi continenti, infatti, la stanno rifiutando. Per esempio la Cina nell’ultimo decennio ha negato l’accesso a Google, Facebook, Instagram, Twitter e un sacco di siti e network, considerati dannosi per la salute e formazione della popolazione. Ciò che poi ha in parte sorpreso gli stessi cinesi, è che studenti e popolazione sono contenti di farne a meno. Risulta da sondaggi e ricerche anche internazionali e di università americane come quella di Stanford. I cinesi non sentono bisogno dei network occidentali (che vedono quando vanno all’estero) e delle dipendenze da essi promosse, dichiarando di preferire la più tranquilla, meno caotica e scandalistica e più positiva informazione fornita dai network del loro paese. Anche molte scuole si ribellano alla droga internettistica. A Eton, il più tradizionale e ambito college inglese, gli studenti di 13 e 14 anni non possono telefonare dalle 21 alle 7.45, e tra poco gli smart phone verranno ritirati a tutti: gli studenti sono d’accordo. Le stesse restrizioni sono già in atto in altri college, e (da tempo) nelle scuole Montessori e Waldorf (steineriane) di tutto il mondo (Italia compresa). Stiamo lentamente scoprendo che per uscire dal disastro, occorre desiderare di essere stabili e felici, noi e i nostri figli. E concedercelo anche se qualcuno (magari molto potente) non è d’accordo. (Da La Verità)

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Claudio Risè

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