Cinema. “Knight of cups”, Hollywood e redenzione nel cinema di Terrence Malick

Knight of cups

Un percorso iniziatico si può percepire attraverso vari punti di vista, spesso neanche troppo espliciti, Dante lo sapeva bene. Knight of Cups (2015) di Terrence Malick pare voler essere proprio questo. Sgretola, infatti, davanti alla macchina da presa l’unità aristotelica di tempo, luogo e azione per tradurre un percorso di elevazione spirituale attraverso i tarocchi, il tutto rappresentando la quotidianità nei suoi anfratti più torbidi. Nonostante le premesse, si rivela un film molto carnale.  Sequenze montate in frammenti di ricordi, proiezioni e sogni, la cui consistenza tende a riproporre gli schemi dell’arte figurativa. Rick è uno sceneggiatore con un divorzio alle spalle e la perdita di un fratello. Esistenzialmente distrutto, cerca di ricomporsi attraverso una vita dissoluta, in cui però, da protagonista, assume via via il ruolo di spettatore, incredulo e in cerca di un centro attorno al quale avvolgere questa matassa sbrindellata. I tarocchi sono la cornice attraverso cui orienta la propria ricerca interiore, divenuta ormai necessaria per esplorarsi. Un percorso dantesco fatto di gironi infernali, diviso in capitoli, ciascuno con il nome di una carta dei tarocchi, antico gioco dai risvolti esoterici. Rick incespica, cade, si frantuma, si ritrova in uno stato di apnea, si lascia vivere, sentendo l’eco di una leggenda che gli narrava il padre durante l’infanzia incentrata sulla figura di un principe che si mette in viaggio verso Ovest in cerca di una perla; giunto a destinazione il principe bevve dalla coppa dell’oblio e si dimenticò chi era e il motivo del suo viaggio cadendo in un sonno profondo. 

Malick sembra suggerire che per trovare il proprio centro, dal momento che la ricerca interiore pare un cammino per certi versi irreversibile, è necessario attraversare anche l’oblio, spesso opaco, confuso e nebbioso. Uno sceneggiatore che vuole uscire di scena, defilarsi, per trovare sé stesso (diventando una sorta di Homo viator dantesco), rende interessante la spinta alla ricerca interiore, divenuta uno dei capisaldi della cinematografia dell’autore a partire da The Tree of Life (2011). Una narrazione a tratti ostica, contrapposta da flashback, voci fuori campo, riproduzione di visioni mistiche e frammenti esistenziali che tendono verso un tutto. Malick va oltre la consueta struttura filmica, considerando il cinema non come il prodotto di una scelta estetica, ma come un mezzo per esplorare il proprio interno, che si chiami inconscio o anima. Knight of Cups, titolo non fortuito, ispirato ad una carta che indica, secondo la mitologia dei tarocchi, l’evoluzione attraverso la forza dell’ideale. È evidente che Malick, pur parlando poco e rilasciando il minor numero possibile di interviste, non smette di comunicare il suo materiale onirico.

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Stefano Sacchetti

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