Cultura (di P. Isotta). Dentro le ragioni autentiche del silenzio di Gioacchino Rossini

Tento un ritratto di Rossini meno ovvio di quel che sarebbe possibile. E incomincio col volto “severo” del genio bifronte.

I suoi studî regolari durarono poco.  Al culmine della fama, nel 1820, quando a Napoli compose una Messa, la colossale Fuga conclusiva del Gloria se la fece scrivere da Pietro Raimondi.  Non si deve a una pigrizia proverbiale e da lui spesso simulata: è un atto di umiltà. A trentasette anni, nel 1829, dopo lo sforzo del Guillaume Tell, per il teatro non creò più. Sarebbe vissuto trentotto anni. E trentotto è il suo numero fatidico: tante Opere scrisse. Ma, dopo, non stette un giorno senza continuare a studiare, a impadronirsi dei più giovani, italiani, francesi, tedeschi. L’abbonamento n. 1 di Parigi delle opere complete di Bach era il suo. La sua ultima composizione importante è del 1862, e porta uno di quei titoli antifrastici proprî al suo carattere: Petite Messe Solennelle. Come a dire: scrivo sì una Messa Solenne, ma piccola, non oso paragonarla a quelle dei Maestri che considero davvero grandi. C’è invece tutta la grazia del giovane genio, insieme con una scienza compositiva e formale insondabile. La Fuga strumentale al suo interno, ch’egli chiama Prélude religieux, alla conquistata dottrina aggiunge la divina ispirazione data a pochi. Se consideriamo lo stile del capolavoro, il divario rispetto al Tancredi, ossia la prima, meravigliosa Opera tragica (1813), è forse ancor superiore di quello che possiamo constatare fra l’Oberto e il Falstaff, prima e ultima delle Opere teatrali di Verdi. E ne resta un’impressione: come se fossero dei Mémoires d’outre-tombe, ma pubblicati in vita.

Il Maestro si formò a Bologna. Vi aveva regnato il padre Giovan Battista Martini, uno dei più grandi contrappuntisti della storia. Era il solo italiano del tempo che avesse intima conoscenza dell’opera di Bach.  Gioacchino ebbe a insegnante l’erede di Martini, il padre Stanislao Mattei. Ecco la ragione del non voler egli scrivere la Fuga nel 1820: altro che pigrizia! Sapeva, e capiva, troppo. Quando poi si ascoltano i pezzi per pianoforte da lui composti nei lunghi anni del cosiddetto “silenzio”, lo vediamo capace di scrivere del Bach nello stile di Bach, del Bach nello stile di Liszt, dello Chopin. Oltre che delle prese in giro di Liszt, di Chopin, di Offenbach, di Rossini.

Durante gli studî, era soprannominato “il Tedeschino”.  “Mozart”, soleva dire negli anni del “silenzio”,“ è stato l’amore della mia adolescenza, la disperazione della mia maturità, la consolazione della mia vecchiaia.” Non si può esser più lapidarî. Ma al nome potrebb’esser sostituito quello di Hadyn.  Consideriamo l’inizio di uno dei capolavori del periodo napoletano, il Mosè in Egitto, composto a ventisei anni.  Principia con la celebre “scena delle tenebre”, il mondo sepolto nel buio, la musica fissa sul rotare di una figura tematica che non abbandona il Do minore. Un esordio simile, e poi la meraviglia della riconquistata luce dopo la possente preghiera in “declamato” fatta da Mosè, che coincide con l’apparizione, autentica conquista, di un trionfale Do maggiore, lascia tuttora senza fiato. Ma un esordio simile non sarebbe concepibile senza il Kyrie dell’incompiuta Messa in Do minore di Mozart e senza la pagina sinfonica con che s’apre La Creazione di Haydn. La Rappresentazione del Caos erra fra accordi dissonanti del tono di Do minore. È forse il più bel Poema Sinfonico mai scritto. Quando si conclude, la voce dello Historicus dice del Caos senza forma né misura di che era fatto l’universo.  Iddio decide che la luce sia.  A La luce fu, il più trionfale esplodere del Do maggiore della musica. Rossini riesce dunque a trasformare in dramma, nel senso di azione, come l’intende la Tragedia greca, il dramma sinfonico-simbolico inventato da Haydn, riproducendolo e trasponendolo in una Parodo drammatica. È l’omaggio creativo di un giovane genio a un genio classico.

E c’è un intreccio straordinario. Wagner ebbe nella sua vita un sol insegnante di composizione. Era il dresdense Christian Theodor Weinlig. Questi era stato a Bologna nel 1806 discepolo di Mattei: nello stesso periodo della paideia di Rossini quattordicenne. Nella visita che il più giovane fece al più anziano Maestro nel 1861 alla Chaussée d’Antin (esservi ricevuti era un segno di somma distinzione), di ciò non si discusse. Parlarono di estetica e di principî compositivi.  Wagner non si aspettava di trovarsi di fronte a un così agguerrito competitore. Alla morte del Maestro ne scrisse un meraviglioso compianto, affermando che Rossini era l’uomo più grande e più buono che in vita avesse avuto la sorte d’incontrare.

“Il Tedeschino”. La presenza di Beethoven nell’arte e nell’idea di arte di Rossini viene sottovalutata. Nel secondo e terzo decennio dell’Ottocento, chi in Italia lo conosceva? Ma quando nel 1816 l’austriaco Lichtenthal intervistò a Napoli Gioacchino intento a comporre l’Otello, credette di farlo cadere dalle nuvole nominando colui che a Vienna era considerato il più grande Maestro vivente. Rossini, serafico, si sedette al pianoforte e incominciò a interpretarne a memoria alcune Sonate. Beethoven era per lui l’ideale stesso del compositore, ancor più di Mozart. L’Otello ha pagine che non potrebbero intendersi senza il dominio dello stile di Beethoven.

Nel Guillaume Tell vediamo di continuo che a Beethoven Rossini tende; e nella sublime apoteosi del finale inno alla libertà ne raggiunge l’altezza. Ma certe cose riescono una volta sola. Rossini sapeva che, con tutto il suo genio, non sarebbe mai stato Beethoven; piuttosto che rassegnarsi a un secondo posto, proprio quando, morti Beethoven e Schubert, era considerato il più grande compositore vivente, preferì non scrivere più. Questa è una delle ragioni del cosiddetto “silenzio”. Ancora cretini si fanno ingannare dai motti di spirito coi quali il Maestro lo spiega: che celano una profondissima tragedia umana e artistica. Pigrizia, raggiunta ricchezza. Si dimentica che in una lettera definisce il proprio ritiro dal comporre una “filosofica determinazione”.  Una volta che dice la verità, non gli credono.

Ma c’è Il Barbiere. Sotto un certo profilo, può considerarsi l’ideale stesso dell’Opera comica. Hegel e Schopenhauer andarono d’accordo nell’anteporlo alle stesse Nozze di Figaro. V’è la personalità esplosiva del protagonista Figaro, qualcosa che la musica non aveva conosciuto. Autoritratto del compositore? Impossibile, per un uomo di quella finezza spirituale e di una psiche la quale si mostra negli anni vieppiù sofferente: pur se, all’epoca della composizione, era ancora un giovane gioviale, pieno di vita e capace di goderla, e con essa l’eros e lo scherzo. E resterà generoso in ogni senso e verso tutti. Nel capolavoro è, coi suoi personaggi, un ritratto dell’essere umano nella sua interezza, dall’abbietto al sublime. E una capacità di raccontare il fatto drammatico mentre si svolge, la musica da rappresentazione ideale fatta azione, non inferiore a quella di Mozart. In Rossini la categoria del comico ha anche qualcosa di antipsicologico, di meccanico, sino alla disumanizzazione In ciò, egli è l’erede della Commedia napoletana di Cimarosa e Paisiello, e lo porta alle estreme conseguenze. Il comico ha qualcosa, pure, di un’ossessione dionisiaca, come si vede nell’ebrezza ritmica dei Finali – anche di alcune Opere tragiche. È quella che Stendhal chiama “une folie organisée et complète”. E sì che Rossini, almeno stando alla sua estetica, è artista apollineo per eccellenza. La feconda contrapposizione delle due categorie, che poi si fondono in superiore unità, era perfettamente presente al mondo antico: Nietzsche l’ha da ultimo teorizzata. Rossini eredita un eterno dualismo da quel sommo artista che è.

Ancora, la categoria del comico passa per Rossini attraverso un grandioso grottesco. Mustafà, Taddeo, Don Magnifico. Vediamo la complessità artistica d’un genio. Non basta. L’ultima Opera comica del Maestro è in francese, Le comte Ory.  È una scettica commedia di costume (come lo era Il Turco in Italia: ch’è cosa diversissima dall’Italiana in Algeri con la quale ingenerosamente si volle all’inizio confondere) e in costume. La finezza, la satira, il doppio fondo erotico d’un’arditezza senza pari (è anche mimato in scena un eros omosessuale involontario), ne fanno un unicum. Anche per la satira degl’ideali del Romanticismo francese: il neo-cattolicesimo della Restaurazione, il Medio Evo, le Crociate. Una compagnia di libertini penetra in un castello francese, il proprietario del quale è impegnato nella santa impresa: i libertini sono travestiti da monache. Se Nietzsche l’avesse conosciuto, ne avrebbe fatto l’emblema d’una divina levità del genio capace di dire danzando cose profondissime.

Accanto a questo, c’è il legislatore della forma melodrammatica che regge tutto l’Ottocento, persino fino all’Otello di Verdi e al Lohengrin di Wagner. E v’è, dopo Spontini, il definitivo inventore del Grand-Opéra francese. Il suo culmine, il Don Carlos di Verdi (1867), nasce dal Guillaume Tell. Nell’intervallo ci sono decine di Opere di tanti: il tramite più alto sarà Donizetti; il genere continuerà a lungo.

E c’è il Rossini Autore tragico. Il Tancredi, che affascinò Goethe e da lui venne definito “favola boschereccia”, con ciò genialmente ascritto all’ethos pittorico di Poussin. L’Otello, la prima Tragedia musicale della storia autenticamente shakespeariana.  L’incanto tassesco dell’Armida. L’incanto ariostesco (quanto a ethos) di Ricciardo e Zoraide. V’è il Mosè in Egitto che, divenuto un’Opera francese, fu il solo capolavoro non comico del Maestro restato in repertorio nel Novecento.  V’è la Tragedia storica Maometto II, dedicata all’assedio dei turchi della veneziana Negroponte, che si termina con le luttuose “nozze di sangue”, le quali strapperebbero le lacrime anche alle pietre. Anch’essa venne profondamente rielaborata in francese, e fu la prima delle tre Tragédies rappresentate all’Opéra, sotto il titolo de Le siège de Corinthe. V’è il romanticismo di Walter Scott de La donna del Lago. Vi sono due Tragedie classiche, l’Ermione e la Zelmira: la prima da Euripide e dall’Andromaque di Racine. V’è la colossale Semiramide, con la quale il Maestro chiude la carriera italiana.  Nove vennero create per Napoli. Il soggiorno napoletano, dal 1815 al 1822, durante il quale egli scrisse venti delle sue Opere, sebbene non tutte fossero per Napoli, fu la rivelazione di Rossini a se stesso, e durante il suo corso avvenne l’incomparabile ulteriore sua crescita artistica e culturale. Naturalmente, solo a un genio senza confronti è dato trar profitto, moltiplicato, dall’influenza culturale di un ambiente. Napoli, insieme con Milano, era la capitale culturale europea. La scelta dei soggetti è incredibilmente ardita e varia; gli autori dei poemi drammatici sono letterati di alta sfera. È straordinario vedere un compositore a contatto sia con le più nuove tendenze del gusto, da Shakespeare al Medio Evo, sia con il mondo classico in un modo affatto diverso dagli stereotipi settecenteschi del pur sublime Metastasio. È affine a quello di Goethe. Eppure erra la musicologia a considerar Rossini un compositore romantico, pur avendo egli al Romanticismo musicale aperto la via; è l’esponente di una fase classico-romantica nella quale i due poli si contrappongono e si alternano nella più feconda condivisione.

  Ora torniamo al “silenzio”. La prima causa l’abbiamo individuata. Troppo intelligente, Rossini, troppo alto il suo ideale artistico. Ma pensiamo, anche, a un uomo che in diciannove anni scrive trentotto Opere: alcune di dimensioni e impegno giganteschi. Ha trentasette anni. Una psiche logorata da uno sforzo eccessivo. Viene preso da una forma di gravissima depressione. Un altro carattere, meno aristocratico, avrebbe osteso il suo dolore. Rossini preferì celarlo, travestirlo. Fingersi cinico piuttosto che confessarsi dolente. Nell’epoca nella quale il tormento dell’artista era la grande moda. Fratello di Leopardi, Gioacchino la Moda la odiava. In uno dei Dialoghi delle Operette Morali, è definita sorella della Morte e di lei più pericolosa.  Rossini avrebbe potuto scriverlo.

 

  *Da Libero del 8.12.2018

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Paolo Isotta*

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