Effemeridi. Vittoria Alliata di Villafranca traduttrice prodigio del Signore degli Anelli

Frodo Baggins del Signore degli Anelli

23 Gennaio 1950 – A Ginevra nasce la principessa Vittoria Alliata di Villafranca, che si farà chiamare Vicky.
Rampolla di una famiglia dell’aristocrazia siciliana, ma originaria di Pisa, non si può dire che non abbia onorato il suo casato.
E’ stata una ragazza prodigio – a dir poco -, a 15 anni, via da Bagheria per approdare a Roma, mentre studiava l’arabo viaggiando tra la capitale (dove frequentava l’Istituto per l’Oriente dei Padri Bianch) e Beirut, già aveva preso un diploma di interprete simultanea e frequentava l’ultimo anno di un liceo privato, si mise a tradurre dall’inglese “Il Signore degli Anelli” di J. R. R. Tolkien.
Quello che abbiamo letto (e almeno nel mio caso… riletto) nelle edizioni Rusconi è merito suo (e di Alfredo Cattabiani, direttore editoriale che seppe valorizzare il suo lavoro).
E Tolkien aveva un filo diretto con lei (e i traduttori nelle altre lingue), per dare suggerimenti, consigli, sui particolari, su certi nomi di protagonisti.
Certo, si dirà, privilegio di casta, poter apprendere più lingue straniere – sei, tanto per puntualizzare: francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese, arabo – grazie ad insegnanti madrelingua che ti vengono a casa, frequentare un esclusivo liceo francese (lo Châteaubriant); ma non è da tutti, se non si hanno certi geni, prendere la maturità e iscriversi a 16 anni alla Facoltà di Giurisprudenza di Roma e solo dopo tre anni laurearsi in Diritto islamico con una tesi sulle donne nel Corano.

Vittoria Alliata di Villafranca

Nel 1975 pubblicò un ironico libretto sbeffeggiante la cultura nordamericana del “Reader’s Digest”: “inDigest. Il meglio dell’America per un mondo migliore”, un testo che nella mia biblioteca ha trovato posto legittimo nel settore “antiamericanismo”.
Scriveva Vicky: “La patata, tubero bitorzoluto e imbrattato, è sostituita nel supemercato da una ventina di prodotti surgelati, igienici, indeperibili: fiocchi di patata tritata, spezzatino di patata stile campagnolo, scaloppine di patate vellutate arricchite di vitamina A e B, patate fritte e croccanti. Sorgono così tra un ghetto negro e un pascolo, tra un deposito di ferri vecchi e un’autostrada, agglomerati di tuculs hawaiani circondati da palmizi e bastioni. No, caro lettore, la civiltà degli spettri non è né kitsch né tanto lontana: è un nostro probabile, prossimo futuro”.
Padrona della lingua ( lontanissima dalla mentalità nordamericana, ça va sans dire), con la conoscenza del diritto, curiosa della cultura, si calò nella realtà del mondo islamico dal quale era stata incantata fin da bimba.
Si imbatté anche nella magia nella sua immersione totale: colpita da lups, malanno grave che gli comportò una deformazione del volto, quasi incurabile in Occidente…. una guaritrice araba fece sparire il male con pietruzze colorate e versetti del Corano.
Da queste esperienze nel 1981 sortì un bellissimo libro, “Harem. Memorie d’Arabia di una nobildonna siciliana”, viaggio in un itinerario interiore di una donna dai capelli rossi tra donne arabe.
E “Harem” fu l’apologia dell’harem: “Harem, in arabo, significa “luogo proibito, sacro” e per estensione “santuario”. La donna è sacra, inviolabile, quindi la zona riservata a lei si chiama, appunto, “harem”; e, visto che il santuario ospita di solito più di una donna, lo stesso termine “harem” si usa come equivalente di “signore”. La parola “mar’a”, che è l’esatta traduzione di “donna”, in Arabia non si usa mai: anzi, i beduini hanno fabbricato dal plurale collettivo il sostantivo singolare “hurma” per indicare una sola donna, “una vietata”. Anche riferendosi a me, sia uomini che donne dicono “la vietata” (…) “Cos’è l’harem, se non il secolare predecessore dei gruppi di autocoscienza femminista? Un nucleo compatto in cui ogni donna trova la comprensione e la connivenza necessarie per difendersi dalla prepotenza dei maschi; dove confidenze e consigli, timori e sofferenze, dibattuti nelle sedute pomeridiane, diventano patrimonio collettivo; e dove il potere delle eminenze grigie determina la sorte dei ministri, l’ammontare degli investimenti, la pace o la guerra con le tribù vicine. Le arabe non sono state allevate tra romantici miti e competitive passioni, non sognano l’amore eterno, o una taille da mannequin, non si dilaniano l’un l’altra per affermarsi. L’Uomo, di cui scandagliano le facoltà erotiche ed eroiche, viene collocato – malgrado l’atavico suo sforzo – su di un piedistallo di dimensioni assai modeste: rispetto, certo, e stima, e devozione, ma pur sempre un margine d’ironia, una sospensione di giudizio, e la consapevolezza di essere tutto sommato loro, le donne, il fattore di coesione della tribù, quindi di stabilità del paese”.
Seguì “Le case del Paradiso. Mito, simboli e vita quotidiana nel Paese delle Mille e una notte”, più che altro un libro di sue fotografie scattate in un arco temporale di dieci anni passati nel mondo arabo, scatti preziosi nelle 242 pagine del volume. Case principesche, castelli, torri, finestre per conoscere, per capire. Bellissime.
Un amore, quello per l’Islam, nato quando aveva pochissimi anni e girava tra Marocco e Palestina con la nonna (e il loro autista).
E in Spagna aveva visitato l’Alhambra di Granada, un fascino che penso avvolga ogni visitatore non scappa e fuggi, non il “turista”. Per lei scattò qualche molla ulteriore e divenne passione, forse amore.
E poi ancora libri, “Baraka” (benedizione), ancora sul mondo arabo; e “Rajah” sulla sua lunga esperienza in Malaysia.
Tornata nella Sicilia delle sue origini familiari, con la figlia Antea, si è dedicata al restauro di Villa Valguarnera, il palazzo avito del Settecento. Non solo, si è battuta e si batte ancora contro gli scempi edilizi, il cemento, il degrado, nella sua isola.

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Amerino Griffini

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