Cultura (di P. Isotta). Didone abbandonata a Foligno, la musica del mito

Negli anni Settanta ero di casa a Perugia: ogni settembre il grande Francesco Siciliani organizzava la Sagra musicale umbra; i miei ricordi di concerti indimenticabili si uniscono a quelli di notti trascorse a imparare da lui, nel salotto del bel “Brufani”. E conobbi tutta l’Umbria. Poi Siciliani morì, e andai solo a visitare alcune meraviglie, da Spoleto ad Assisi. Sono tornato a Foligno qualche giorno fa, incantato dalla dimensione civile d’una cittadina ove pare sopravvivere qualcosa dell’antica gentilezza italiana. Il monumento principale è il palazzo dei Signori: breve signoria, la quattrocentesca dei Trinci, ma le dobbiamo quella che Federico Zeri giudica la più bella dimora dinastica costruita nel secolo. L’austero gotico si fa grandioso nella fuga prospettica delle scale e del pozzo, contemplato dalla sommità; e si aggarba negli affreschi commissionati a Gentile da Fabriano da despoti innamorati della cultura latina e dell’idea di Roma. Mi ha colpito, nella sala delle Arti Liberali, un’immagine della Musica. La donna è intenta, leggendo una partitura, a suonare con la mano sinistra un organo portativo; con la destra percuote con una verga sei campanelle sospese in alto. La mia spiegazione è che la figura sia l’emblema dell’arte dispiegata in note musicali e insieme arcana scienza. Infatti la scala di sei note, detta nel Medio Evo esacordo, è il modello per l’organizzazione tonale del “modo maggiore”, nell’ambito dell’ottava perfetta gl’intervalli della quale vennero calcolati da Pitagora. Si aggiunge sia alle scale della musica greca antica sia a quelle del Canto Gregoriano, configurando la moderna tonalità.

Gli “Amici della Musica” hanno a Foligno una bella stagione di concerti, affidata al concittadino Marco Scolastra, colto e bravo pianista quanto amico delizioso. E domenica ho ascoltato un’esibizione di Sandro De Palma, col quale siamo amici da decennî per esser egli stato allievo a Napoli del sommo Vincenzo Vitale, che tollerò persino me. Il concerto era stato ideato come una serie di immagini del Mito; parlerò dunque prima di un brano contemporaneo della compositrice romana Silvia Colasanti, assai affermata. S’intitola Flebile queritur lyra, ed è il racconto della morte di Orfeo nei versi delle Metamorfosi di Ovidio. Chi mi conosce sa che, per il mio ultimo libro, nuoto nella mia acqua; e perciò ero stato invitato. Il brano è per pianoforte, clarinetto e voce recitante. L’ eletta artista commenta nello stile del “melologo” la narrazione del Poeta, contemperando la trasposizione delle immagini con uno stile avanzato ma non di pretensiosa avanguardia. Il grande talento della compositrice, che mostra d’ispirarsi anche a La mort d’Orphée di Berlioz, è volto in particolare alla narrazione mitica; ella ha già scritto un Minotauro e fra qualche mese verrà rappresentata una sua Proserpina. I versi, nella traduzione di Mario Ramous, sono stati letti con dizione mirabilmente chiara ed espressiva da David Riondino. All’autrice vorrei suggerire tuttavia di fare al suo pezzo un’aggiunta, ripristinando una parte del mito omessa. Dal poeta ellenistico Fanocle Ovidio assume, a differenza di Virgilio, che Orfeo, dopo il dolore per la doppia perdita di Euridice, trasferisse il suo amore verso teneri maschi; e Poliziano lo segue, probabilmente condividendo il gusto, se, nella Fabula di Orfeo, dice che il dio della musica si dedicò allora alla primavera del sesso migliore.

Il Maestro Vitale considerava Sandro De Palma una delle gemme della sua scuola. Oggi il pianista conserva la strepitosa tecnica di quarant’anni fa e vi aggiunge la sua esperienza di profondo musicista e uomo colto. Il suo suono (quello che si dice in gergo il “tocco”) è di una morbidezza e una luminosità con pochi confronti: fa pensare a Horowitz e Mannino.  La tecnica virtuosistica si è ammirata nel suo concerto durante la Seconda Ballata di Liszt. Questa è ispirata a un’altra favola ovidiana, quella di Ero e Leandro. Il pianoforte deve, con moti cromatici, simboleggiare il tormento d’amore e i ripetuti amplessi degli amanti, e con scale e arpeggi le onde in tempesta dell’Ellesponto che il giovane attraversava a nuoto ogni notte per raggiungere l’amata; fino alla sua morte e alla trasfigurazione finale. Di recente questa composizione difficillima e di alta poesia è stata eseguita da un altro degli allievi prediletti di Vitale, Vittorio Bresciani, in una diversa versione.

Il nostro Maestro si dedicava in particolare alla rivendicazione del valore artistico della musica di Liszt e di Muzio Clementi. Questo affascinante romano divenuto da Londra uno degli arbitri della vita musicale tra Sette o Ottocento, e chiamato a Lipsia “l’Orfeo dei nostri tempi”, è stato fra i principali creatori del moderno pianoforte: del suo stile, dico, del suo linguaggio. Mozart ne era invidioso ma Beethoven lo giudicava il più importante compositore per pianoforte contemporaneo. Nel concerto dedicato al mito non poteva dunque mancare la Sonata in Sol minore detta Didone abbandonata. De Palma ne dà un’interpretazione inarrivabile per stile e tecnica, equilibrio, eleganza e pathos.  Si vuole che Clementi s’ispirasse al Dramma di Metastasio: ma, con tutto il rispetto per il poeta romano-napoletano, egli guardava al Quarto Libro dell’Eneide e alle Eroidi di Ovidio. La Sonata dispiega le immagini dell’amore inteso come passione anche dolorosa; poi quella della sua illusione; infine dello stato quasi psicopatico della fenicia regina quando, abbandonata da Enea per voler degli dei, erra invasata e si uccide. Ascoltandola in un’interpretazione rivelatrice, ci si rende conto che non si può in musica immaginare un “Romanticismo” contrapposto a un “Classico”: si tratta di due aspetti d’uno stesso stile che guida la musica almeno per centocinquant’anni.

Benemerito clementino, De Palma pubblica in questi giorni un meraviglioso disco (etichetta “Naxos”) dedicato al Maestro romano-londinese. Quattro Sonate: due del tardo periodo, fra le quali la Didone, due assai anteriori (1771 e 1784): onde si palesano coerenza insieme ed evoluzione d’un compositore. Non onorato dalla sua patria quanto il suo merito vorrebbe; ma la storia l’ha consacrato fra i sommi.

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*Da Libero Quotidiano  del 26.02.2019

Paolo Isotta*

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