Cultura. A che punto è la situazione del situazionismo?

Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione

Guy Debord, La società dello spettacolo

E anche dopo, lasceremmo qualche impalpabile ma durevole marchio sull’universo? qualche bagliore persistente, qualche eco dell’umanità terrestre?  Qualche segno interplanetario del fatto che una volta c’eravamo?

Alan Weisman, Il mondo senza di noi

Noi non dobbiamo semplicemente costruire i monumenti : dobbiamo prevederne le gigantesche rovine, a monito nei secoli. Dobbiamo inventare l’arte anche nella dissoluzione fisica del monumento. In India non si restaurano i monumenti: essi sono in realtà monumenti al tempo che corrode. E le rovine sono maestose. Dobbiamo immaginarle, calcolarle. Chiamiamola una teoria delle rovine

Giuseppe Genna, Hitler

 

 

Più del frammento, ma non ancora paesaggio. Possibile abstract di un concetto, quello di situazione, che la lingua inglese efficacemente giustappone, quale suo sinonimo, al termine atmosphere. Concetto camaleontico, sfocato, sviante. Proprio per questo attrattivo, intellettualmente fertile. Il paradosso del situazionismo sta nel suo suffisso. Come comporre un’idea di visione se si esalta l’assenza di intenzionalità nel culto della percezione sfiorata, del frame sottratto all’incosapevolezza, dello scorcio dimenticato da riscattare dalla reificazione immaginale, da liberare dalla dittaura dello standard? Cosa vuole insegnarci la pittura situazionistica oggi riemergente con i suoi interni di case, letti sfatti, arredi, gruppi sparsi di oggetti, cibi, beni di consumo? Che la soglia e l’intercapedine sono la radice dell’esserci? Che ogni rappresentazione ed espressione artistica opera per decapitazione, formula e riformula mondi per elusione/erosione, come nella Genesi Dio crea le forze e gli elementi cosmici tramite atti di separazione? I luoghi di confine forse si rivelano le più efficaci matrici di identità e di identificazione, come se nell’ombra degli interstizi covasse il mistero generativo Forse. Il situazionismo fu ideologia sessantottina, pop, tribale e avanguardistica, guerrigliesca e anarchica. Deriva dalla destrutturazione dell’idea del reale e dalla sua riproposizione nei termini di un processo dinamico e olistico, aperto e fluido. Visione che corrisponde a quello che Vattimo chiamerà poi negli anni ottanta pensiero debole. Il situazionismo ha a che fare con il culto degli stati mentali collettivi, delle suggestioni di massa, da costruire e indurre e con cui giocare creativamente, con la celebrazione del concetto psicoculturale di paradigma, ciò che nell’economia era lo standard. All’epica situazionistica appartengono i fatti sociali e mediatici del G8 di Genova del 2001, vero laboratorio del nuovo progressismo, acefalo e autogestionario, sistema antisistemico che vorrebbe porsi con le qualità dell’organicità e della processualità, libere però da codici definiti. Il G8 quale performance mitizzante, operazione di arte visiva, gestione estetica e simbolizzante del disordine. La società attuale sopravvive rantolando in un ipertrofia di situazionismi. L’arte/artigianato pubblicitario è sostanziato di situazionismo e così ormai tutti i mondi dei mass media: dalla cronaca all’intrattenimento televisivo fino a quei monumenti mediatici di situazionismo ipnotico che sono Striscia e Paperissima. Il carattere sovversivo e rivoluzionario del situazionismo ideologico si è trasformato in un fedelissimo e vincente strumento per il Mercato e la sua aggressiva e omnipervadente comunicazione. Dall’Isola dei famosi alla Leggenda del pianista sull’oceano, dall’ hip hop ad Astin Power, dallo splosh alla nuova tendenza del buildering cioè dell’arrampicarsi/saltare fra l’arredo urbano e gli ambienti metropolitani, la polimorficità del situazionismo impera nella sua programmatissima e dirompente struttura che induce il senso del ritmo spezzato, del gioco libero, istintivo, azione efficace e virale del Mito del caos. Nella pittura figurativa la cultura modernista della situazione, propria intrinsecamente, e storicamente, ad ogni espressione estetica performativa, entra a livello di immaginari pop, di inquadrature pittoriche paramediatiche, di ricerca radicale dell’effetto di assenza di dedicazione soggettivante. L’ismo dell’attenzione alle situazioni evapora nella sua componente ideologica e totalizzante quando influenza il medium pittorico. Sia per la forza attrattiva dell’antropocentrismo pittorico, anche se implicito e non rappresentato, sia per  l’esistenza di una tradizione plurisecolare fatta di composizioni pittoriche oggettuali e antropicamente decentrate. La pittura giocoforza resiste materialmente al situazionismo, proprio nel suo speciale recepimento e metabolizzazione. Già nell’ 800 abbiamo opere pittoriche di situazionismo pop ante litteram. Un esempio fulgido in…(Fondazione..i dolciumi)   La forza della pittura, il proprio fisico sovrapporre istintività ad ideatività, appartiene ad una dimensione celebrativa che tende a ridimensionare una semiotica autoreferenziale o sperimentale anche nei soggetti letterariamente situazionali. Questo non sminuisce l’importanza culturale di una ricerca estetica e di una riflessione sulla pittura dedicata ai semitoni, alle microscene, sostanziata di una narratività indiretta, mediata, sussurrata, apparentemente indifferente all’equilibrio e alla ricomposizione di senso. Né i concetti archetipali di orma e di traccia esauriscono l’iconologia della pittura situazionistica, che si espande ben al di là di una riproposizione glocal/postmoderna/pop del canone delle nature morte.

L’arte visiva è da più di un secolo strutturalmente e fisicamente situazionistica. Si tratta di un dover essere, della forza d’inerzia dei traumi creativi delle avanguardie, a partire dell’austera madre di tutte le avanguardie novecentesche: il futurismo. Anche oggi, conclusa, anche nominalmente a partire dalla trasavanguardia degli anni 80, la spinta evolutiva delle tendenze e dei gruppi, resta un arte visiva così totalmente estroflessa da esaurirsi nel suo primo effetto visivo. Il situazionismo precipitato in effettismo. Difficile parallelamente ricostruire ormai percorsi artistici di ricerca o scenari culturali che diano il senso di una tensione, di uno slancio, di uno sviluppo, di un arco che congiunga i frammenti, anche fisici, delle singole opere. Il predominio mentale ed estetizzante del situazionismo rende ogni parete fluida, ogni angolo gommoso. Ciò che non appare evidente invece è ricostruire le dinamiche culturali del situazionismo nel decorso della pittura figurativa. Il situazionismo pittorico si riduce a temporanea esigenza di aggiornamento immaginativo? Oppure esprime una necessaria più vasta area esistenziale dove la pittura figurativa può resistere l’usura dei linguaggi ritagliandosi un suo nuovo ruolo in attesa della propria rivincita sul performismo? Il situazionismo trova la sua celebrazione e attuazione pragmatica nel 68 francese, nell’esplosione di quell’anarchia organizzata promossa prima nella cultura artistica o poi nel movimentismo contestatorio, nuovo futurismo di sinistra. Il paradosso del situazionismo quale movimento ideologico è facilmente leggibile nella sua breve storia pubblica: dal 1957, nascita dell’Internazionale Situazionista, surrealmente a Cosio di Arroscia, in provincia di Imperia (anche Antonio Ricci, abile guru del situazionismo populista televisivo non a caso è di quelle parti)  fino all’autoscioglimento nel 1972 a Parigi, fatto curioso ma emblematico perchè coincise paradossalmente con un grande successo di adesioni giovanili al movimento, tanto e tale che disgustò le elites che lo guidavano ufficialmente. Lo stesso termine situazionismo, pur suggestivo e utile, per sua natura metamorfico, a lungo andare non piacque più agli intellettuali che lo teorizzarono e promossero, in quanto, e il linguaggio  ritorna sempre ad essere  logica/metafisica, apparve in essenza antisituazionistico, riducente. L’istanza per una Bauhaus immaginista intendeva liberare la sperimentazione dalla tentazione dell’assorbimento industriale  e tecnocratico tornando alla vena surrealista e rivoluzionaria. La metropoli quale unità complessa, ibrida, caotica ma dotata di un suo esplosivo organicismo divenne  lo stato mentale da portare ad una integrale ebollizione. La pittura si dimostrò ovviamente più refrattaria a questa temperie, ma non insensibile ad un accelerazione oggettualista e ambientivista dei suoi immaginari e dei suoi stilemi. Gallizio, Simondo, Dangelo,  Scanavino e altri, contribuirono a canalizzare anche pittoricamente l’implicito situazionismo da sempre esistito nella pittura, conferendogli una nuova consapevolezza innovativa e propulsiva. La tigre fù cavalcata e non si scese. Il deficit di visibilità che scontò la pittura nelle ondate di pensiero sperimentale deriva solo dalla tradizionalità della sua stessa fisicità. Mancando nella pittura la dimensione strutturale gli input avanguardistici e le innovazioni trovarono maggior espressione nella gestione dello spazio e dei materiali, nell’installativismo, naturalmente portato alla ricostruzione alternativa, mentre nella figurazione si spettacolarizzò più la destrutturazione antropica e tecnica piuttosto che la ricostruzione per situazioni.

Fra Isou e Debord si aggrega la definizione di situazione quale momento di vita, concretamente e deliberatamente costruito attraverso l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco d’avvenimenti.  Matrice che conserva il proprio valore euristico e culturale anche nell’attuale fase di stasi meditativa. L’ambiente è il nuovo Mito, nella sua complessità e ludicità autocreativa. Mentre nella pittura figurativa la componente ideologica e programmatoria dell’esaltazione della situazione produsse fenomeni geniali ma dissolutori fino alle emblematiche aperture di Fontana, segno di un ansia comunicativa/sperimentale che voleva manifestare fisicamente la resistenza del medium pittorico  all’energia performativa (la pittura quale fisiologico ma illuminante limite dell’espressione), punto di non ritorno e pure di ritorno, la dimensione della situazione quale stato assoluto ed effimero, decentrato rispetto ai finalismi e antisoggetivista continua, ancor oggi, ad influenzare la produzione pittorica, al di là e attraverso la molteplicità dei percorsi di ricerca, quale ampio e quasi necessitante sfondo esistenziale. L’esigenza rifondativa e ricostruttiva delle sperimentazioni artistiche, ormai quasi del tutto assorbite dalla serialità di mercato, si attua, nella pittura sia con il ritorno alla figurazione mitizzante come con la mai cessata pittura d’ambientazione. Dopotutto la derive e il detournament sembrano impliciti, innati, in ogni riuscita composizione pittorica d’ambiente, oggettuale, dove giocoforza nell’opera è l’organizzazione narrativa dello spazio e la selezione immaginale a generare significato, a lasciarlo percepire, a reggere e connotare l’opera stessa. Massima libertà percettiva e massima regìa connettiva. L’effetto e l’ideale di autogenìa propria del situazionismo si fonda su due polarità: il desiderio di costruire ambienti fluidi e permeabili alle passioni e alle istanze creative, in antitesi al funzionalismo e al razionalismo architettonico, e fino all’ambizione di porsi quale forma estetica stessa della passionalità esistenziale, e l’efficacia co-costruente e condizionante sui comportamenti e sugli atteggiamenti umani della modulazione degli spazi, dei fattori esterni, delle sollecitazioni, delle suggestioni organizzatorie/strutturali. In tal senso possiamo ridefinire, e indagare, la pittura contemporanea in senso neosituazionistico, nel porsi quale pittura di atteggiamento, di clima, di temperie, di adesione modulante, di passaggio graduale fra stati, spettacolarizzazione del dettaglio, del contingente, pragmatismo emozionale.

Fatti che dimostrano la grande capacità della pittura figurativa, per sua natura celebrativa e simbolizzante, di leggere, intercettare e dare volto alle dinamiche socioculturali dei tempi, di fare il punto della situazione, di cogliere lo stato dell’essere nel fieri, fra avanzamenti sperimentali, assestamenti di mercato e fasi di meditazione intellettuale.

Mentre il carattere pubblico, celebrativo, della pittura, grazie alla dirompenza dei futurismi, si trasla, anche se con intenzionalità di dialettica critica e antagonista,  nell’arte visiva sperimentale, concettuale e performativa, la vena purista della pittura ritrova una sua intimità, spesso intimistica, nel neoromanticismo implicito delle visione situazionistiche, che siano metafisicizzanti, veriste o emozionali. Con il rapido cristallizzarsi delle avanguardie in nuove ideologie estetiche il fiume carsico della pittura situazionistica, libera da tipizzazioni quanto da diktat di scuderia, non cessa di accompagnare il dispiegarsi dei tempi, delle fasi storiche e artistiche. Dalla scuola di Roma alla transavanguardia l’esigenza di esprimere immaginari introflessi, accennati, allusi, non riducibili alla teorica del frammento come alieni dai grandi temi di massa resiste quale dimensione con la quale tutte le tendenze artistiche sono chiamate, anche incidentalmente e tacitamente, a  confrontarsi. Un esempio chiaro l’ultima produzione di Tamara. Una pittura che sembra possedere la forza persistente del genere senza poter essere indagata quale genere, e dai generi sfuggente, ma al massimo, come tentiamo di fare quì, quale carisma d’anima, tendenza immaginale. Per Kierkegaard la ripetizione appare fenomeno ricostruttivo, spontaneamente catalizzante, generativo del senso del reale. La ripetizione moltiplica e regge lo spessore e il valore nel e dell’esistente. Valore dei valori, varco che apre creativamente la significazione. E che cos’è  la focalizzazione di una situazione, per sua natura mobile e sfuggente, mero accidente percettivo, se non un operazione di deja-vu, anche fittizio, artificiale, simbolizzante, un’idea di ritorno virtuale, segni sparsi di ripetizioni, anche solo percettive, accadute? Anche  prima del topos venatorio dell’orma e della traccia, la volontà di riconoscimento scenico, oggettuale, pure in toni e sensi surreali, inquietanti, enigmatici, potenzia e rinnova l’istanza concreta dell’esserci. Senza la categoria di reminiscenza o di ripetizione, la vita intera svanisce in un rumore vuoto e inconsistente. Kierkegaard visse da situazionista estremo, senza ideologie o posizioni di ruolo da difendere, spendendo i suoi giorni nei caffè, nelle passeggiate, nelle conversazioni, tutto assorbito nel  possesso di un terzo occhio di purità, fattosi laboratorio di osservazione in un ritmo sub speciae aeternitatis. Il suo pensiero ci aiuta a riflettere sul rapporto fra i luoghi comuni e le comunità di luoghi, fra il situazionismo quale erosione del nesso teleologico e la comunicazione di una riconoscibilità, voluta, imposta, recepita. Il buffo mistero dello sguardo che riconosce una scena e nel farlo la usa, la plasma, la deforma avvicinandosi, attingendo all’incrocio fra i discorsi del Mito e la resistenza, anche a se stessi, anche larvale, dei corpi, delle volontà, dei segni. Come la luce che arriva e muore e arrivando annuncia una morte già consumata in distanza. La filosofia tomistica ci ha insegnato che non esiste in realtà la materia allo stato puro. Ciò che noi chiamiamo res si rivela quasi sempre, ragionando,  il risultato, e la risultante, di intenzionalità impresse, perduranti per inerzia o accettazione, di significati proiettati, aristotelica forma e causa finale, di volontà scolpite nell’invisibile e povera inconsistenza dal cui anonimato sorgono, per vangelico mistero di moltiplicazione, tutti i linguaggi e le esistenze. Le cose sono artefatti, trovati in quanto posti. Il cambio e la varietà dei tempi, le diverse velocità, generano e co-implicano la complessità, il senso di apparenza, di caos. Come molteplici musiche di Mozart lasciate suonare comtemporanemente formano un senso di stonatura, di disarmonia, di smarrimento direzionale. Il senso della situazione in sè e per sè si può apprezzare pure quale turismo esistenziale, quale annusare ovunque hanno annusato gli altri (op.cit.) Ma pure in questo senso prima o poi si ritorna alle radici dell’arte quale atto di fede, di adesione fiduciaria.  Non appartiene ormai al senso comune alternativo di massa il must del vivere totalmente al presente, di godere integralmente gli attimi in cui ci troviamo a vivere? Guado fra una new age da bancarella e l’arrendersi al livellamento mercantile d’anime, alla greppia della fisiologia di base, degli assolutismi da e di reclames. Si dimentica che è necessario un gusto kunderiano della lentezza per aprire lo sguardo al Mito della scena, non la moda della rinuncia al pensiero, alla proiezione di valore.

Un altro strumento di analisi può individuarsi nella dialettica fra tradizione della pittura paesistica e immaginari oggettuali. Forse una delle chiavi dei lettura storica sta proprio nell’avvicinamento dello sguardo ideativo della sensibilità paesistica fino a entrare nei microambienti, nei micropaesaggi del vissuto individuale, lasciandosi alle spalle istanze di visioni totalizzanti e usurati modelli metaforizzanti. Un movimento di interiorizzazione che ha iniziato a sentire l’esigenza, fra le due guerre, di  focalizzare l’attenzione sugli stati intermedi, sulle zone grigie, sulle dimensioni di soglia, e di passaggio percezionale. Certamente, alla base, un desiderio di cambiare alveo rispetto agli estremi del neoclassicismo di regime e della corsa dei futurismi, corrosiva della figuratività proprio nel fuoco del suo rinnovamento.  Nel Mito del vero II si scarta il paesaggio, religione antisituazionistica, modello autoritario, conformante l’unitarietà coerente dell’idea di mondo, specchio eccessivamente lucido, senza l’aura dell’ombra. L’orma non è un ombra?  L’ambiente, la scena, l’ambiente scenico si rivelano distanti, altri, dal concetto di paesaggio, e piuttosto si avvicinano all’idea di zona di Tarkovskij: La Zona è Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza o resiste. (Scolpire il tempo, Ubulibri) Il Mito quale Zona, scena in movimento e azione che si lascia contemplare. Il senso del reale quale visualizzarsi di situazioni narrative, più intense di chi le recita. Non né il Mito greco un insieme caotico di innumerevoli rivoli situazionistici, dei quali rimane il gusto, il clima, l’aura?

Lo scenario culturale quasi evapora, e quindi pro-voca, anche nel tentativo di analisi d’insieme della pittura d’ambiente. Solo una versione pop della traditio delle composizioni vegetali e oggettuali, allargantesi a ogni possibile immaginario? La visione quale recisione, quale scarto, quale furto? Forse il proprio senso deriva da una sorta di metafisica della moda dove il vestito domina sull’intercambiabilità dei corpi? O da una filosofia da fiction, dove la scena del delitto resta l’unico vero narratore? Retoricamente si potrebbe affermare che ogni rappresentazione pittorica figurativa pone in essere la scena di un delitto, quello di voler strappare una visione dall’indifferenziato, un mondo distinto e a se bastante rispetto al caos omnipervadente dell’a-peiron di massa. Forse è difficile ricostruire lo scenario del situazionismo pittorico contemporaneo proprio per il deficit linguistico da cui sorgono le sue manifestazioni. Oppure forse il movimento è inverso (il forse diventa postulato ontologico). Dall’assenza di topoi, voluta/trovata/subita, si è manifestato il gusto per quello che un tempo era chiamato minimalismo. Come in un impercettibile ma costante erosione eolica che dal mito novecentesco del frammento, dalla parodia artistica della produzione di massa e dalla metafisica del collage anni 70 giunge ad una riformulazione dello sguardo che si intreccia con la fuga dalla figurazione antropizzante. Segno della grandezza della pittura, che sa assorbire ogni crisi, colmare ogni cesura, adattarsi fluidamente ad ogni cambio di stato psicologico collettivo, attraversare ogni sperimentazione. Un analisi diffidente potrebbe sgorgerci un leccarsi le ferite, una sensibilità pittorica postraumatica, quasi metabolizzazione di una nausea. Un nuovo ermetismo di derivazione emetica nello smaltire la sbornia di un lungo uso spregiudicato e cinico dei mezzi e dei linguaggi artistici, quasi indifferente dal continuum pittorico. Il situazionismo pittorico quale forma di reducismo alla Lindo Ferretti? Scena, habitat, relitti, dunque. La scena ci parla di una prospettiva aperta, dinamica. Ma la stessa situazione che ad un primo sguardo possiamo chiamare scena fissando l’attenzione si rivela più complessa, più organica, in una parola: habitat, processo olistico e frattalico. Ma la vita non rispetta sempre la parola e focalizzando ancora l’occhio forse  ciò che appare richiama ora la mitologia segnica del relitto, il terzo sguardo su ciò che sembra residuare nel processo di resilienza. Forse solo il concetto di traccia e di orma sembra poter ricomporre in unità di senso una pluralità di linguaggi e di prospettive. L’orma come erma. Ciascun possibile è un ombra sonora. (Kierkegaard, op.cit.)  L’orma sigillo di ceralacca impresso e spezzato, matrice e relitto. L’effimero si confonde con la suggestiva possibilità del ritorno, di un accettabile riproposizione, sospesa fra desiderio e timore. L’essenziale tuttavia non è ricostruire possibili autori di un passaggio di vita dall’analisi delle tracce come se fossero indizi, né pensare al fatto che abbia potuto generare uno stato di fenomeni ma il valore aggiunto della scena pittorica permane nella suo saper cogliere il valore di segno dagli scenari più pauperistici, status aurorale di un mistero alluso, performatività di un flusso di mondo. La tacita eloquenza di un locus per sua natura amoenus anche quando potrebbe porsi quale inquietante scena di un delitto, o quale conclusione fatale di ogni scenario esistenziale non più sostenibile, vicolo cieco dell’anima. Il Mito parla da sempre per situazioni, per facta conludentia, attraverso ambienti non meglio definibili, non solo per gesta o individualità eroiche. L’Arcadia, Samotracia, la piana di Ilio, non sono paesaggi o geografie quanto scene, habitat, rovine vibranti, selve reattive, radure che emergono dall’indifferenziato, cimiteri di elefanti, orti fecondati da necropoli. Il senso della scena non è mai né tutto dato né tutto controllabile da una regia razionale. Il più delle volte non percepiamo neppure una situazione quale determinata scena. Il tempo, i tempi, sono il corpo della scena come del relitto. L’habitat è durata, indistinta nella sua autogenìa di efficace apparenza. Habitat da habitus: le veste della riuscita ripetizione, del vitale ritorno, liquido amiotico per l’Altro. Scena e habitat agiscono per reattività ricettiva, abbracciando tenacemente lo sguardo ideativo, come il tronco e chi lo taglia, la bicicletta e il ciclista, formano un tutto di relazioni complesse e interdipendenti. Questa una delle radici dell’allusività innata della perenne pittura situazionistica che oggi con questo evento milanese celebriamo. Stiamo riflettendo su correnti invisibili del senso compositivo del reale, correnti di valore e senso che scorrono sotto la pelle della percezione, del verosimile. Non sappiamo veramente cosa c’è al di là e al di qua, sentiamo solo i calori di un energia che scorre, katadermide, ritmo scenico, aura dell’habitat, lascito linguistico del relitto. La scena più delle volte è ignorata o incompresa, facile vittima di meccanismi rappresentativi automatizzanti. La scena parla di manifestazione, scoperta, intravedere. Che differenza fra scena e messa in scena? Il veder chiaramente allude alla simulazione? Forse è il vedere chiaramente risultato di una necessaria regia? L’habitat invece rassicura, continuo processo adattativo, osmotico, panico. Anch’esso è un filtro, anch’esso muta, ma più lentamente. L’habitat si riconosce appunto dall’abitudine percettiva. Stabilizzazione di campi di energia. La pittura situazionistica narra per atmosfere, climi, semitoni. Una pittura di ritmo e di temperatura. Una pittura dove si percepiscono le lingue degli oggetti, il linguaggio esoterico delle pietre, sapienza posizionale, scarto e soglia, crivello ermetico. L’habitat è mappa e la mappa è territorio. Il relitto è un lascito, dimensione affettiva, percorso solo in apparenza interrotto o concluso, legato dedicato a tutti e a nessuno. Il Mito non è una rovina? Il relitto quel Mito, quale archeosofia, passione per l’esplorazione. Di fronte al relitto il contemplativo, il saggio, il curioso, l’amante della bellezza, cosa fa? Colleziona. Il relitto è un condensato di energie, oracolo di futuribilità, magnete di promesse e racconti. Il relitto è concetto plurale mentre la scena e l’habitat sono idee solitarie e unitarie per natura. Se parliamo di relitto allora significa che qualcuno o qualcosa ha amato, ha vissuto, ha tentato, ha esplorato. Veste di vita spesa e sparsa. Il relitto si rivela sempre discrimen, soglia, bagnasciuga e spartiacque. Questo il segreto del suo fascino, borderline. Il relitto, oggetto affettivo, è l’escreto, il secreto, la pelle serpentina della muta. Scena e habitat tendono a riportare i mondi ad unità, il disperso ad un idea di mondo. Il concetto di relitto invece moltiplica, per negazione, le possibilità, valorizzando la pluralità, impedendo all’idea di mondo di irrigidirsi, di reificarsi, di autoproclamarsi sovrana. La ternarietà scena/habitat/relitto avvicinano intimamente il binomio performatività/ricettività.  Nella cultura barocca dominava letterariamente il topos del theatrum o anphiteatrum, l’antenato fantasmagorico e sapienziale dell’enciclopedia, wundercammer saggistica, macchina narrativa che tentava di assorbire il caos del creato e della storia in un superiore ordine armonico, in una teoria ideativa. Oggi ci accontentiamo di accogliere visioni che idealizzano frammenti esistenziali, microcomposizioni che rimandano alla totalità per assenza e fragilità. Il gusto collezionistico torna nei periodi di crisi, e oggi viviamo un neobarocchismo regressivo che erode gli spazi degli habitat, nelle carenze  di condivisione, riducendone gli spazi fra l’ipertrofia di scene e di relitti. Cogliendo gli aspetti vitali di questa esigenza di elencazione ricapitolativa il Mito del vero II condensa e illustra i carismi della pittura situazionista fra le nature vive delle composizioni oggettuali, le scene d’interni, gli ambienti arredativi e il protagonismo eudaimonistico e tecnocratico dei miti socioeconomici di massa. Il frammento non è che un cono ottico, uno sguardo obliquo e sfiorante. L’orma non è né giusta né sbagliata. O c’è o non c’è. Indice di processualità. L’idea di percorso regge il fascino del segno frammentario, scia di un cammino. Una chiamata all’essere, un dover essere. Prendiamo l’immaginario simbolico della colonna spezzata, presente negli affreschi di tanti secoli dedicati all’epifania e al Natale, nei presepi napoletani, nei vangeli apocrifi, nel simbolismo massonico, nei racconti dell’esilio della sacra famiglia in Egitto. Nella sua evocatività la colonna spezzata è relitto misterico e scena simbolica, così intensamente narrativa da generare un habitat spirituale. È proprio il suo essere enigmaticamente incompleta, rovinata, a manifestare una propria natura allusiva, saturnina, ermetica, metafora essenziale di ogni orma e traccia, per antonomasia. Questo dimostra come la traccia manifesti valore in sé, indipentemente dalla risoluzione di un rebus eustistico. Nella storia abbiamo una fenomenologia di relitti che è stata incredibilmente preziosa dal punto di vista culturale e influente dal punto di vista sociale e spirituale: le reliquie cristiane. Fecero muovere milioni di pellegrini in tutta Europa, costruire cattedrali, formare confraternite, associazioni. Furono contese politicamente e militarmente, unirono e divisero. Oggetti simbolicizzanti, catalizzatori di affetti e  speranze. Come il mito immaginale della colonna spezzata, neoarchetipo italico dalla visione dei tanti resti romani, e il theatrum mundi dei trattati barocchi, così le reliquie  cristiane generarono e plasmarono immaginari, cioè scene, habitat e relitti. Il sepolcro vuoto, la sindone, i resti della croce, i chiodi, la tunica, la lancia di Longino, le icone acheropite che riempiono le chiese di Roma e i santuari, i corpi dei santi, mossero le società popolari come le elites intellettuali e produssero effetti e conseguenze di cui residuano ancora tracce socioculturali a distanza di secoli. L’arte ne fece eco. Basti pensare all’influsso dell’immagine e dell’immaginario della sindone sul topos bizantino del Cristo pantocratore. La reliquia quale tessuto connettivo, traccia e relitto che svolge un ruolo sia di aggregazione sociale che di propulsione creativa. Ci permette di riflettere in profondità sulla dimensione della traccia e dell’orma nel suo aspetto di testimonianza e di rito celebrativo. Non appare una versione modernista il monolito nero di Kubrick?  La scena quale frammento riassorbito nella totalità del cono ottico, tela di ragno sensibilissima tesa sull’ignoto invisibile. Tensione misticheggiante. La parte mancante della colonna spezzata regge e anima la scena, è volo, audacia dell’Idea, folgorazione dalla e nella nube gravida, farfalla volata via dal suo bozzolo, seme vangelico. Opus Saturni. Ci parla dell’arte quale metateatro, scena mundi, cardiodinamismo. Meditare sulle rovine, sull’abbandono, sul lascito di assenze non appare operazione nostalgica se non etimologicamente. Si tratta invece di una virtù del cuore, di slancio coraggioso di una facoltà contemplativa propria di chi possiede un respiro vasto e una sete di sguardo e di futuro impaziente di facili limiti. Non padroneggiamo i nostri percorsi di vita. Ma abbiamo esperienza delle ricettività. In questo permangono stabili le radici delle scene. Nel sentimentalismo retorico ottocentesco nasce il termine, scandalosamente utilizzato ancor oggi, di natura morta, con il quale si evidenziava l’aspetto banalmente drammatico della recisione del soggetto assunto a modello pittorico. Eppure questa persistenza nominalista ci deve portare ad un indagine più profonda. Forse la morte, il distacco, la fatalità irreparabile del contingente appartengono geneticamente alla rappresentazione ideativa ed estetica. Il rappresentato è sempre un reciso? A pittura quale potatura di possibilità? Allora tutta l’arte è relitto, escrescenza, decapitazione, rifiuto, come accennava Carmelo Bene. La visione ritaglia un esserci distaccandolo dall’a-peiron materno, per questo ha a che fare con la morte. La pittura situazionista quale atto di ybris? Siamo di fronte ad un titanismo intimista, ad un operazione mitopoietica in sé traumatica? L’esclusione della figurazione umana come del paesaggio carica di intensità vibrante, quasi inquietante, ogni visione di una scena, di una traccia. Quelle composizioni sono in realtà nature naturans perché l’atto genetico di focalizzazione rappresentativa congiunge l’effimero alla persistenza di senso e trasfigura microcosmi in dinamiche armoniche di cui non possiamo fare a meno. Il situazionismo pittorico rassicura la mente perché sottilmente sembra confermare un armonia mundi a cui l’umano può partecipare e in cui può incidere. Per questo la pittura d’habibat è una pittura di atmosfere, climi, temperature, ritmi nella quale l’apparente decentramento antropico fa emergere un senso rasserenante di continuità, di integralità. La traccia oggettuale è la prima semiotica, la prima logica e sapienza posizionale, la più antica arte. Reinvenzione pop e gusto per la tradizione si intrecciano e si esalta una sedimentazione casualnecessitata di ogni participio presente. Il Discorso passa per i temi della volontà, delle intenzionalità, del perdurare/affievolirsi del significato nell’usura del significante. Ne troviamo conferma nella straordinaria vitalità e ricchezza immaginale e iconologica che le composizioni pittoriche a tema floreale/vegetale ancor oggi manifestano, al di là di ogni citazionismo o manierismo.

Ogni tavolo con fiori, ortaggi frutta o soprammobili non tarda a rivelarsi, in un magico istinto, icona e altare, totem e talismano. La funzione di rimembranza opera fino ad oltrepassarsi in un’ autogenesi di un sistema aperto e organico di segni. L’assenza di visibilità della regia, della dipendenza del contesto lasciato intravedere da qualcos’altro o da qualcun altro richiama proprio la totalità amiotica, libera e liberante, dell’Altro in cui, ci ricorda San Paolo, ci muoviamo, respiriamo e agiamo. (Atti, 17,28) Ogni tavolo con fiori, ogni letto sfatto è l’alba del mondo che sparge e dissipa, irradia e libera. Il suo silenzio modella gli spazi e li offre amabili, affidabili, in un accordo agglutinante. Da come dispongo gli oggetti della mia scrivania, da come lascio i vestiti, dai segni ellittici che i gabbiani lasciano sulla sabbia,  caos e unità di senso si avvicinano, Ares e Afrodite ancora si congiungono. In qualunque modo si spargano le carte sul pavimento, anche casualmente o con violenza,  esse conservano e producono senso e valore. Se qualcosa sembra un relitto allora non possiamo non  dirci ancora romantici nel pensare : si è amato, si è provato, si sono spese energie. Il relitto poi parla da sé, rivela un valore autoreferenziale irresistibile. Induce esplorazioni e indagini, riflessioni sulle nostre assenze. Gode di una potenzialità virtuale fortissima. L’abbandono induce rispetto, la distanza contemplazione. Il Mito splendeva nelle pire, nei serti, nei nastri. Odisseo viene salvato dal naufragio da Ino, la bianca, a sua volta annegata divinizzata, attraverso un nastro purpureo. Sparta è silenzio, vuoto, e il suo grande mito lascia fondamenta povere, appena riconoscibili. Il Mito inizia con le meteore e i monoliti.

Il situazionismo non va confuso con la disgregazione ideologico/consumistica dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, anzi, pur utilizzando tecniche sovversive, e pur inserendosi in una logica ancora rivoluzionario/avanguardistica, anzi ingenuamente (e anticamente) utopistica nel voler unire arte e vita e superare sia l’arte che le distinzioni e le specializzazioni della vita, il situazionismo cercava l’espansione delle dimensioni vitali e creative umane, rivelandosi implicitamente neorinascimentale : L’arte non fà che rendere preziosa la realtà, mentre la tecnica la svalorizza. L’arte non ha altra finalità che rendere preziosi, con i mezzi che lo sviluppo della sua epoca concede ed esige, gli atti umani. (Asger Jorn, Pour la forme, 1958) Il loro fù un ragionamento non solo sullo spazio da reinventare ma pure sul tempo e sui tempi. Nell’analisi culturale sull’I.S. Marelli evidenzia: E’ il progresso economico-produttivo che, attraverso lo spreco di tempo, cancella la dimensione umana e vitale, la sola capace di prender il tempo necessario per costruire, con opere stabili e durature, il mondo naturale delle cose. (Gianfranco Marelli, L’ultima internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica)

Da filosofia di una liberazione immaginale dei desideri e delle passioni nella società industriale il situazionismo si è ridotto storicamente, a tutto vantaggio del Mercato e del Sistema, ad un design della percezione, ad un insieme di nuove tecniche, più affinate, di condizionamento socioculturale. Il Mercato, e il suo settore politico, ha assimilato velocemente la lezione situazionistica inglobandola nell’aggressività e nell’omnipervasività dell’advertaising, nella programmaticità del controllo sociale. La loro sfida era quasi persa in partenza. Voler competere in senso rivoluzionario con il Potere nell’organizzazione del tempo libero delle masse presupponeva una capacità di organizzazione e di consapevolezza diffusa che neppure il 68 francese, influenzato culturalmente proprio dai situazionisti,  ha mai saputo raggiungere e conquistare pur con tutta la sua deflagranza  e i suoi effetti ancora, in parte, operanti. Il rischio era già insito nel carisma programmatorio e teoretico dell’ideale del costruzionismo di ambienti e situazioni appassionanti. La plasticità scultorea e urbanistica dell’ambiente culturale di Debord e dei loro manifesti e iniziative non ha potuto che rafforzare lo sperimentalismo materico e strutturale dell’arte, nonostante l’elitario rifiuto dei situazionisti d.o.c. di essere scambiati per l’ennesima vanguardia artistica assorbita gradualmente dal Mercato. Certamente il loro attivismo ha contribuito a generare un meccanismo, una tendenza, una nuova sensibilità artistica e sociale che ha avvantaggiato diffusivamente la percezione delle possibilità creative e ha valorizzato la forza e l’efficacia delle suggestione indotte, ma si è perso il senso della vera ricerca, lo scenario profondo della neocostruzione, pure a prescindere dalla prospettiva rivoluzionaria, oggi da tempo non più proponibile, né proposta. Quel che resta del 68 è la rivoluzione dei costumi, la dissoluzione dell’idea di Unità, di Sistema, di Autorità. La pars destruens ha avuto successo, anticipando la cosiddetta globalizzazione, mentre si  persa la pars costruens. Eppure ragionare sui paradossi e sulle innovatività dei Situazionismi anni 50/60 appare ancora utile e stimolante perché ci permette di analizzare più lucidamente e complessivamente, sfida scomoda, l’attuale panorama artistico, dominato ancora dall’arte visiva installativa e performativa, cioè in re ipsa situazionistica.

Paul Mac Carthy, tanto per non far nomi, è artista di potere, amico del Potere. Usare un linguaggio osceno per criticare ciò che si considera osceno (Bush jr ad esempio) non fa che legittimare e celebrare sia l’osceno che il Potere. La società dello spettacolo così ingloba e digerisce soddisfatta ogni pulsione creativa. Il grave non è il proliferare, ripetitivo, di un arte da aperitivo ma l’assenza di critica, il provincialismo vecchio e nuovo (prima più verso gli U.S.A. e l’U.K. ora più verso l’oriente), all’’indifferenza verso un Mario Donizetti, il vuoto di ragionamenti e di percorso, di prospezioni prospettiche, lo snobismo verso una pittura figurativa vincente. Il vero influsso sulla società lo si realizza nei mondi dell’anima. L’ab-soluto così affannosamente e conformisticamente rincorso dagli installativi si ritrova più autenticamente nell’Assoluto e nei suoi assoluti, dove solo si è veramente liberi. Se l’arte non si libera dal facile psichismo e mentalismo per tornare ad immergersi liberamente nell’anima, allora non resterà nella storia, evaporerà presto. Il Sistema, altro fantasma e idolo pseudosituazionista e pseudorivoluzionarista, icona dialettica vicaria di un senso di comunità sempre più evanescente, ma indice vero di un’inadeguatezza alla vita, divorerà se stesso, e i suoi servitori, in assenza di vero cibo, cibo spirituale, riconfigurante, riformante. Oggi proprio la pittura, così svalutata dal Situazionismo storico, tranne gli sfioramenti con la pittura industriale di Pinot Gallizio e con la pittura nucleare di Milano, può paradossalmente salvare il buono ideale della filosofia situazionistica con i suoi nuovi ambienti e immaginari. Salvare pure dall’idolatrìa mercificata dell’estetica quale fenomenismo, dell’ab-soluto manifestativo, alieno da valori come da vere idee e povero di relazionalità. I professionisti dell’effettismo sono stati cointegrati, in posizione accessoria, nell’industria della comunicazione e dello spettacolo anche perché non si può reggere nel generalismo e nell’assenza di una forte identitarietà di fronte ad una società delle specializzazioni. La pittura resterà sempre specialistica come universale. E resterà sempre azione dell’anima. Aristocratica e popolare, singola e sociale. Come Listz amava la musica popolare, oggi diremo tradizionale o etnica, da cui attinse, come un tesoro in sè di affetti e di sogni, in ogni caso da rispettare e ammirare, così siamo chiamati ad amare la pittura figurativa, spazio di tempi e di respiri liberi dalla funzione, dalla serialità, dalla ripetizione, e capace di realizzare in concretezza l’ideale di situazionisti, cioè accrescere le possibilità di vita e di vita creativa, appassionante, libera. Pensavano che la pittura, dopo secoli di successi, fosse spettacolo, quindi rischiosa, poco propulsiva, e involontariamente favorirono la spettacolarizzazione e la pseudosperimentalizzazione di ogni altra arte! Il non senso non può vincere la sfida contro l’industria del senso, pure di un senso artificiale, banalizzato, massificato! Il trionfo narrativo delle fiction, delle sit com e dei reality, invera il situazionismo e nello stesso tempo lo sconfessa, lo eutanasizza. Questo trionfo narrativo rappresenta un’implicita condanna dell’arte sperimentale e performativa, una plateale accusa all’arte visiva dominante. La costruzione dell’effetto si appalesa quale strumento tecnocratico, egemonico, non più artistico. All’ingenuità onesta dei situazionisti che ritenevano non possibile un arte situazionista, per timore di strumentalizzazioni commerciali e per focalizzarsi sui concetti di urbanistica unitaria, ambiente, habitat e vita quotidiana, rispose cinicamente il Mercato facendo di quasi ogni fenomeno e linguaggio estetico una merce situazionistica, rigettando il loro rifiuto dello spettacolo per esibire ovunque lo spettacolo del rifiuto!  Lo si vede nella storia che si cela fra la cronaca. Il G8 di Genova è stato fenomeno situazionistico nel quale il situazionismo anarchico è stato sconfitto, anche nel lascito massmediatico, dal situazionismo del Potere. Ciò che è sembrato spontaneo si può apprezzare invece quale risultante di due opposte programmazioni in conflitto. Fenomeno televisivo. Resta prezioso del situazionismo l’urgenza della riflessione e della ricerca, l’impegno etico ed esistenziale,  il recupero simbolico del barocco quale dimensione organica e propulsiva di vita.

L’arte di moda oggi frequentemente si riduce a necrofilìa, e non è quasi mai arte pittorica. L’opera, il più delle volte, non vive da sola se non sorretta da “critici” e mercanti e non và oltre un’ idea progettuale di se stessa. L’opera esce stanca e logora dalle mani dell’artista, già svuotata, mentre solo la pittura sà ancora farsi traditio, cioè passaggio, generazione, percorso, vera condivisione e sviluppo di crescita. La Tradizione è presente vivo ed è futuro. La sperimentazione quale ontologia, struttura, funzione è passatismo, serialità, moda. Non più arte ma merce artistica. Aggettivazione e non sostanza del sostantivo. L’arte oggettuale, fisica, come Kronos divora i suoi figli, le sue opere, accidenti in un flusso anonimo. L’arte visiva, performativa, installativa attuale culturalmente non è quasi mai andata oltre la metafisica ricombinatoria e rimiscelatoria del detournement del primo situazionismo anni cinquanta !

Ma allora la sperimentazione restava innovativa, non era ancora sterile moda, in quanto ci si trovava di fronte alla guerra lampo del consumismo di massa, all’inondazione delal produzione industriale, congiunta al terribile e vasto vuoto valoriale post bellico. Bisognava resistere e criticare, contrattaccare. Il modo più veloce ed efficace era tentare un fertile abbraccio mortale, che poi purtroppo divenne parassitario e mortifero solo per l’arte e non per il Mercato, con i nuovi linguaggi della comunicazione di massa e con i nuovi strumenti tecnici a disposizione. Allora si comprende il collage, lo strappo, il mescolare i piani codicistici, la provocazione del televisione sepolto di  e del film muto di

Purtroppo dopo 50/60 anni i prodotti artistici del Mercato non sono andati molto oltre, anzi sono retrocessi intellettualmente e culturalmente nel loro essere usati, anche inconsapevolmente, per rafforzare l’atomizzazione e l’appiattimento dei comportamenti,a  unico vantaggio del consumo produttivo. Oggi il senso estetico è dato dal senso di inutilità e assurdità dell’installazione, come se bastasse questo effetto, mentre la materialità ostentata viene facilmente contrabbandata quale forma di sperimentalismo innovatore. Resta, sterilmente, il germe ideologico e rivoluzionarista, ma ne resta l’involucro decomposto, cioè il mero intento esibizionista, ipocritamente e moralisticamente pedagogizzante. Si rimasticano instancabilmente cadaveri avanguardistici, mentre invece la pittura figurativa non ha mai cessato di evolvere, di aprire scenari, di reinventare immaginari. Purtroppo gli pseudorivoluzionari della pseudoarte fingono di non accorgersene! Ma cos’è la rivoluzione se non un immaginario? E come si regge una suggestione efficace se non sulla precisione della immagini e sulla loro partecipabile ed esperibile significanza? Solo se riflette a fondo si può capire perché l’arte è chiamata ad uscire dai suoi vicoli ciechi pseudosituazionistici e forse ci riuscirà. Meglio se per consapevolezza della qualità e della realtà dei fatti che per mere esigenze di sopravvivenza dell’anonimo e onnipresente Mercato! Se tutti vogliono programmaticamente indurre suggestioni e creare nuovi ambienti, arte documentale o apparentemente critica, allora nessun artista visivo è più veramente situazionista, in quanto i linguaggi dell’arte non possono uscire dalle esigenze sociali di intrattenimento, di distrazione, di perpetuazione della dominanza sussistente. La pittura invece, anche nel silenzio, colpevole, degli anni 80, (salvati simbolicamente da Sgarbi a Palazzo Reale di Milano nel 2007) anche nel caos, però dinamico, degli anni 90, non ha mai cessato di creare visioni, di generare mondi alternativi, e lo ha fatto libera da impostazioni programmatiche o ideologiche. Se l’idea di opera prevale sull’opera stessa rimaniamo nel backstage, nel brainstorming dell’arte, ma non andiamo molto avanti! La pittura parla da sola, si regge da sola! Non serve funzioni ancillari, vicarie, seriali. Oggi l’Insurrezione, la Rivolta, deve prendersi la rivincita contro l’ideologismo strisciante e dissolutorio al potere, per anestetizzare. Lo sta facendo e lo farà con il libero ritorno alla Tradizione, all’Idea di Bellezza, di Memoria, di Continuità, di Unità. Ricostruzione dalla Realtà fisica dell’Arte. Ripartenza dalla Tradizione della Bellezza, dimensione d’essere contemplativa, non ideologicamente sperimentale. Chi sperimenta per essere alla Moda taglia le radici sulle quali è cresciuto, si svuota di futuro, impoverisce il linguaggio, oblìa e disperde il suo stesso percorso.

La pittura conserva oggi una carica creativa, addirittura sanamente eversiva e liberatoria, infinitamente più vasta e profonda di qualsiasi altro linguaggio artistico in quanto culturalmente, e quasi fisicamente, la pittura figurativa si rivela più resistente all’omologazione situazionista del Mercato. La pittura è visione, e qualsiasi visione resiste maggiormente alla reificazione di un arte materialmente oggettuale. Oggi la videoarte, come in genere ogni arte materica e ambientale, solo in rare eccezioni riesce a distinguersi con successo dall’oceano massmediatico, dalla potenza tecnica e comunicativa del Mercato della suggestione. Come uno spot, focalizzando le capacità, sa raggiungere livelli tecnici superiori allo stesso cinema, così i mondi della comunicazione hanno inglobato quasi completamente i vuoti linguistici che le avanguardie hanno aperto in una corsa autodistruttiva, annullandosi a vicenda.

L’attuale significativa assenza di correnti, tendenze, scuole artistiche, così ipertrofiche in tutto il Novecento e da sempre esistite nella storia dell’arte, non fa che confermare e nuovamente rivelare il paradosso sociale dominante: se tutto è situazionistico allora l’arte non và oltre, almeno nel suo impatto sociale, al porsi e allo svilupparsi quale settore del Mercato, quale fenomeno meramente di comunicazione.

La società dell’arte, sotto la pressione di due vuoti: il vuoto valoriale/linguistico post bellico e il vuoto già aperto dalle avanguardie inizio novecento, sempre pronto a riespandersi, non potè che continuare il gioco disaggregativo, che però andò a tutto vantaggio del Mercato in sé nell’eccessiva espansione del concetto di arte che non portò al suo superamento o alla sua fusione con la vita, ma la contrario alla sua integrazione quasi completa con la mercificazione, fino ad invertirne il rapporto. Come ricorda Stewart Home in Assalto alla cultura : “se nessuna cosa è simile a un’altra, allora qualunque cosa è qualsiasi cosa!”  E ancora: “la storia, per gli artisti dell’avanguardia è disponibile come merce; e la merce è a sua volta intrinsecamente storica, di seconda mano. Forse dopotutto, l’avanguardia sviluppa uno stile di bricolage in cui convergono la mercificazione della storia e la storicizzazione della merce”. Il carattere dirompente dei movimenti post situazionistici giocò a favore dell’implosione dell’autonomia dell’arte che non resse alle pressioni fortissime delle società della comunicazione, cercando anzi di rincorrerle. Ma l’apparente fallimento del situazionismo ritorna rivincita nella pittura neotradizionale e neofigurativa, in particolare in quella  ricca di immaginari esoterici, così carica di vita e di sogno, di delirio e di desiderio da potenziare e documentare con forza l’attuale ritorno culturale e sperimentale alle tradizioni religiose, spiritualiste, anche primitiviste. Stewart Home acutamente già nel 1988 evidenziò le significative tracce di esoterismo e simbolismo presenti nelle produzioni e nel milieu culturale dei più importanti situazionisti, confermando quindi il legame fra spirito rivoluzionario e spirito di ricerca spiritualista, ermetica, occultista. Già nel 1988 la cultura antagonista iniziava quindi ad accorgersi, e il successo di Assalto alla cultura lo dimostra, dell’inversione mondiale di standard avvenuta. Dal trend di decostruzione/appropriazione proprio del situazionismo ideologico, poi banalizzato nel consumismo ideologico, alla nuova costruzione di situazioni narrative e linguistiche connettive, organiche, neosimboliste e all’emersione dei mondi di rifondazione semantica, di cui sono epifenomeni il surrealismo esoterico di Arturo Schwarz, l’importante fenomeno Luther Blisset/Wu Ming, parallelo al ritorno della figurazione pittorica magica/mitizzante con Carlo Maria Mariani, Serafini, Ferri, Serenari e alcuni altri preziosi spiriti liberi e appassionati. Mentre ballavamo con Jovanotti for President e ci si baloccavamo con quel percorso formativo che fu Drive In Calasso sviluppava Adelphi, compariva la rivista Abstracta, vero laboratorio di pulsioni e ricerche visionarie/creative, si diffondeva la conoscenza di Guenon, e il Mattino dei Maghi sfondava nelle librerie nutrendo anime assetate di trasfigurazione e di riconfigurazione. Questo trend ancora oggi concresce e abbraccia un arco vastissimo (da Che Guevara a Madre Teresa recitava la lezione del neosituazionista fashion Jovannotti) che va dalla politica situazionista di Putin, icona di un neotradizionalismo progressista in grande espansione, a matrici situazioniali di eccellenza come l’epica di Dies Irae di Giuseppe Genna, Corpo di Tiziano Scarpa, fino al fenomeno integrale Giulio Mozzi. Nel Mercato restano ancora rovine di un sovietico muro di gomma difficile da vulcanizzare e sempre più autisticamente lontano da una Società dell’arte molto più aperta, dinamica, fertile, che si muove in sintonìa organica con il vitale trend mondiale di riposizionamento/ristrutturazione dei significati. Lo dimostra il proliferare, a cui contribuisco, dei Curatori e degli Eventi a fronte del canonico, ormai ridicolo ed obsoleto, critico d’arte. Lo dimostra il ruolo sempre più strategico e connettivo che svolgono gli spazi pubblici e le pubbliche istituzioni a fronte dei mondi del gallerismo, reso ancor più miope, sterile e rancoroso dalla crisi economica. Mesi fa una gallerista mi mandò una mail dove mi sgridava perché avevo parlato (pochi minuti, per complimentarmi) con un artista, durante l’inaugurazione, senza prima passare tramite la sua intermediazione. Il duplice paradosso stà nel fatto che il comportamento sovietico e stalinista di quella sciocca gallerista avvenne all’interno di evento artistico da lei promosso e dedicato ai XX anni dalla caduta del Muro di Berlino. L’Italia cortigiana dei falsi mercanti e del falso libero mercato resta più sovietica dell’attuale nuova Russia che congiunge futurismo a neotradizionalismo! Vittorio Sgarbi alla conferenza stampa della sua mostra Ritratti Italiani, tenutasi alla Fondazione Durini di Milano all’interno della mostra Il Mito del vero/il ritratto/il volto, ha parlato, citando la totale e intensa figuratività su cui si basava quest’ultimo evento, del timore di apparire riconoscibile, codicistico, proprio di molti artisti figurativi affermati, tale da spingere ad esempio un Samorì, tecnicamente capace di opere quattrocentesche, a deformare i volti, diventando sfigurazionista ! Come ha parlato del colpevole silenzio sul grande Mario Donizetti. Ebbene di queste autocensure deve liberarsi la società dell’arte, derivanti dagli involucri vuoti e putrescenti dell’idea di avanguardia!. Deve liberarsi dai diktat fatiscenti dei mercanti.Bisogna voltar pagina una volta per tutte abbandonando la pozza fangosa della sovversione semantica, di cui furono maestri i primi situazionisti, per passare, situazionisticamente, alla rifondazione semantica e valoriale.

 

 

Giacomo Maria Prati

Giacomo Maria Prati su Barbadillo.it

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