Francia (di G. Del Ninno). Nell’incanto di Giverny da Monet, in fuga dalle ferite di Parigi

Notre Dame a Parigi

Ancora una volta torno a Parigi, che è un po’ la mia seconda casa; e ci torno in versione familiare, con moglie, due dei tre figli e una nipotina, che a Parigi non è mai stata. Per questo motivo, ci toccherà muoverci da turisti, soprattutto per riguardo ad una bambina di dieci anni che ha preferito il Louvre a Eurodisney.

 

Dunque, sceglieremo alcune delle mete più classiche e scontate, dalla Tour Eiffel ai musei del Louvre e d’Orsay e alla cattedrale di Notre Dame, senza esimerci dal sottolineare che di una città bisogna saper cogliere le atmosfere, anche smarrendosi nelle sue strade e camminando fino a sentirsi stremati. Non siamo più all’epoca del Grand Tour, e quindi dovremo spendere al meglio il poco tempo a disposizione, nella speranza che anche in Marta – così si chiama la mia nipotina – ancora a digiuno di miti letterari e cinematografici (e meno che mai politici) possa accendersi la fiammella della passione per questa straordinaria città. Questo del resto sono riuscito a fare con tutti i miei figli e con gli altri nipoti.

 

Non sto qui ad annoiare con i motivi di questo amore, che per quanto mi riguarda devo a mio padre, eccellente francesista. Qui colgo l’occasione per scoprire alcuni cambiamenti intervenuti negli ultimi mesi nella “Ville Lumière”: il mio ultimo soggiorno parigino risale infatti a “prima dei gilets jaunes”, e forse anche per questo fenomeno, fino ad oggi, avevo evitato di tornare sotto la Tour Eiffel. Le immagini delle devastazioni periodiche causate da quella pur legittima protesta di popolo mi avrebbero fatto soffrire.

 

E così è stato, ma non mi sono dovuto amareggiare soltanto per le tavole di legno e le griglie montate, sia pure tardivamente, davanti alle prestigiose vetrine degli Champs Elysées; più in generale, ho notato la proliferazione di scritte e graffiti sui muri, di accampamenti di clochards agli angoli delle strade centrali e perfino sotto i portici di place des Vosges, di mille transennamenti e cantieri dove non ho visto nessuno al lavoro e che travisano il decoro urbano, per tacere delle manifestazioni ormai nemmeno più commentate dai media. A causa di una di queste, di domenica, dopo il sabato dei gilets jaunes, abbiamo rischiato di perdere l’aereo del ritorno a Roma.

 

E parlando con amici, con i tassisti, con i camerieri, ho registrato uno scontento che sconfina, a volte, in astio, verso le Istituzioni, e segnatamente il Presidente Macron e il Sindaco Anne Hidalgo. Non sappiamo se questo scontento sfocerà in un conseguente voto di massa alle prossime elezioni europee: i francesi hanno sempre manifestato una radicata paura del cambiamento, per lo più rappresentato dal Front National e ora da Marine Le Pen, sistematicamente sconfitti; certo mi ha fatto impressione sentir gridare da un tassista “A morte Macron”, bollare di comportamento mafioso la classe dirigente algerina tenuta in piedi dalla Francia, lamentarsi – un altro ancora – del fatto che tutti i più importanti palazzi parigini appartengono ormai a cinesi, arabi e russi.

 

E allora, lasciata la dolce Montmartre, ho deciso di fuggire con i miei nella quiete della normanna Giverny, sulle orme di Claude Monet, che vi stabilì la propria residenza nel 1883, con tutta la famiglia. Per me si tratta ormai di un vero e proprio pellegrinaggio laico, di cui mi piace ripercorrere il tragitto in treno dalla gare St. Lazare fino a Vernon, passando per Mante La Jolie, dove il Re Sole impiantò una fabbrica di strumenti musicali e un altro sovrano, Filippo II, morì durante la guerra dei Cento Anni. Vernon invece deriva da un oppidum romano e, nei secoli, fu contesa da Franchi e Vichinghi, da inglesi e francesi. Poco distante, lungo la ferrovia, scorre la Senna, attraversata per la prima volta dagli Alleati nel 1944 proprio nei pressi di Mantes.

 

Il mio amore per questo luogo nacque fra le pagine del bellissimo libro “Monet, la sua tavola, le sue ricette”, curato da Claire Joyes – e magnificamente illustrato da Jean-Bernard Naudin – sulla dimora di Monet, sul suo giardino d’acque, sulla sua vita quotidiana nella casa di Giverny; ma la realtà superò e continua a superare le fantasie innescate dalla pagina scritta e illustrata.

 

Parigi, Gilet gialli in piazza

Il sito dove sorge la costruzione bassa, tinteggiata di rosa tenue, con le persiane e le ringhiere di un verde muschio, è coronato e protetto da colline boscose, un versante delle quali incombe sulla “casa Monet”, mentre l’altro si allarga a semicerchio, più lontano. Gli interni della maison tradiscono il gusto del padrone di casa  per i colori, padrone di casa che ci accoglie sull’ingresso in effigie, in una gigantografia in bianco e nero, con la sua folta e lunga barba e lo sguardo intenso e forte, come l’intera figura. Ecco il giallo solare della vasta sala da pranzo, il pervinca di una delle camere da letto, il bianco con le modanature azzurre del salotto, la spaziosa cucina con le maioliche bianche e blu e la sfilata di pentole e tegami di rame appesi alle pareti.

 

Insieme ad una piccola folla di visitatori, veniamo introdotti – in punta di piedi, per quanto mi riguarda – nell’intimità di quella che fu una dimora prospera e felice: lo testimoniano, fra l’altro, le foto di famiglia, che ritraggono i protagonisti con parenti e amici, in occasione di matrimoni, feste, gite (anche con le prime automobili). Non è difficile immaginare momenti di vita quotidiana: ecco il Maestro – gran gourmet e appassionato di gastronomia – impegnato a preparare l’anatra alle rape o il beignet di mele, dopo aver deposto la tavolozza; ed ecco Madame Monet intenta a cucire con la Singer che vediamo in un angolo o, ancora, ecco entrambi i padroni di casa, mentre si  intrattengono con i loro ospiti nel luminoso salotto arredato con divani e dormeuses. Vedremo poi che questi stessi ospiti, che rispondono ai nomi, fra gli altri, di Renoir, Degas e Cézanne, sedevano con il loro anfitrione ai tavoli del vicino Hotel Baudy, a sua volta poco distante dall’ultima dimora del Maestro, sepolto con i suoi familiari nel piccolo cimitero della chiesa di Santa Radegonda.

 

Un discorso a parte meriterebbe il rapporto di Monet con la cultura giapponese, reso evidente, negli interni, dalla collezione di stampe e, all’esterno, dai ciliegi, dagli iris, dallo stesso assetto del giardino, con le sue acque e il ponticello immortalato in tanti quadri. In questo microcosmo riplasmato, trova dunque posto anche l’esotismo, nella sua accezione più lontana: ed ecco i volti stilizzati, con gli occhi a mandorla e le capigliature corvine, come sulla scena del kabuki, ma anche i paesaggi rielaborati con l’irrealistica precisione dell’altrove (e colpiscono quelli marini, con le alte onde dai riccioli spumeggianti evocanti cronache tragiche di tsunami).

 

I profumi, il mormorio delle acque del fiumiciattolo che alimenta lo stagno delle ninfee, il cinguettare ora brioso, ora rabbioso di invisibili uccelli ci riportano alle atmosfere campestri di quei primi anni del Novecento, lontano dalla metropoli dove si è appena conclusa l’Esposizione universale simboleggiata dalla Tour Eiffel e dove già sferragliano i convogli della metropolitana. Saremmo fuori del tempo, se non fosse per il fastidioso, continuo ronzio del traffico che scorre lungo la strada dalla quale, inspiegabilmente, la piccola proprietà fu tagliata in due, tanto da rendere necessaria la costruzione di un sottopassaggio, per collegare le due parti. E degli eventi epocali che sconvolsero la Francia e il mondo nei lunghi anni trascorsi a Giverny, dall’affaire Dreyfus alla Grande Guerra, non resta traccia in questa casa della bellezza e dell’armonia e nelle opere del Maestro, che vi morì nel 1926.

 

Ma è tempo di tornare, perché questo hortus conclusus in fondo appartiene ancora soltanto a Lui. E allora riprendiamo le allées bordate di violette di ogni specie e colore, con macchie di azalee nipponiche, sulle sponde dello stagno reso immortale dalle cento riproduzioni di ninfee, ripetute strenuamente, fino alla stagione della quasi cecità. La Francia, l’Italia, l’Europa del nostro tempo ci aspettano, con le loro bufere e i loro affanni quotidiani.

 

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Giuseppe Del Ninno

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