Per un breve periodo insegnò direzione d’orchestra nella sua e mia città natale. Fece degli esami di ammissione. Ogni candidato si presentava con alcuni pezzi a sua scelta. Lui stava al pianoforte e loro dovevano dirigere mentre lui suonava. “Che hai portato?” “Maestro, il Prologo del Mefistofele.” “Attacca”. “Maestro, la Prima di Beethoven”. “Attacca”. “Maestro, la Nona di Sciostakovic”. “Attacca.” Non c’era titolo che, da fantastico pianista, non conoscesse a memoria. Mentre suonava faceva le correzioni.
Metà degli anni Ottanta. Patanè provava a Roma l’Eroica di Beethoven con un’orchestra inglese. Non l’avevano mai visto. Ricordo dietro la britannica imperturbabilità professionale un’espressione di disprezzo. Il disprezzo aumentò quando il Maestro, senza partitura né leggio, eseguì l’intera Sinfonia non fermandosi nemmeno una volta. Italiano fannullone, si leggeva nelle loro facce. Dopo l’ultimo accordo, immaginavano di essere messi in libertà. Pippo fece uno di quei sorrisi napoletani che gli erano proprî: “And now, we begin the work!”. Incominciò, a memoria, a richiamare ogni singolo errore o di tutti o di ogni singolo strumento. Citava a memoria il numero di pagina, il numero di battuta, la lettera indicante la sezione. Ma non della partitura del direttore: delle singole parti di ogni strumento: che hanno una numerazione diversa. La prova successiva andò malissimo: erano paralizzati dal terrore. Disse loro: “Adesso basta provare, ci vediamo domani sera al concerto.” Fu un’Eroica come ne ho ascoltate poche.
La morte di Patanè sul podio del Nationaltheater di Monaco di Baviera avvenne trent’anni fa, il 29 maggio 1989. Aveva solo cinquantasette anni. Altri Maestri l’avevano preceduto in questa fine da soldato: Joseph Keilberth, il più grande wagneriano del secolo, sullo stesso podio durante il II atto del Tristan und Isolde; Hermann Scherchen, durante un pezzo di Malipiero – ognuno ha la morte che si merita; e Dimitri Mitropoulos, mentre provava alla Scala la Terza Sinfonia di Mahler, l’Autore del quale è stato il più grande interprete in assoluto. Patanè cadde durante Il barbiere di Siviglia: morte atta a un uomo ironico, instancabile coniatore di battute. Era uno dei miei amici del cuore: il dolore che ne provai è stato fra i grandi della mia vita: la perdita di mia madre, di Dino Ciani, del mio Maestro Vincenzo Vitale, del Maestro Siciliani, di Franco Mannino, del mio bassotto Ochs: e di “Pippo”.
Nella sua carriera era stato fottuto dalla troppa bravura. Conosceva a memoria, e a memoria poteva concertare allo stesso modo che ho descritto, 120 Opere liriche, ossia l’intero repertorio; oltre tutta la letteratura sinfonica. Mozart, Rossini, Donizetti, Wagner, Verdi, Saint-Saëns, Musorgskij, Ciaikovskij, Sciostakovic, Puccini… Al pianoforte, da Beethoven a Liszt a Chopin, eseguiva qualsiasi pezzo: e suonava da padreterno. Lo presero per un facilone. “Dicono che provo poco!”, mi raccontò. “Ma ci sono cose che già so che otterrò automaticamente col gesto, altre che, con quest’orchestra, non otterrò mai!”. Il suo gesto. Circolare, sintetico, inimitabile. Era impossibile non esser trascinati dal suo magnetismo. I cantanti, quando c’era lui, si sentivano sicuri come con alcun altro. Il suo Bellini, il suo Rossini, il suo Donizetti, il suo Verdi, il suo Puccini, erano superiori a quelli di qualunque altro. Karajan lo stimava immensamente. Nella villa di Dumenza, l’unico patrimonio restatogli dopo una vita scialacquata dietro troppe donne che lo spennarono, possedeva una delle più belle e ampie biblioteche musicali che abbia viste.
*Da Libero Quotidiano del 23.5.2019