Città. L’anima antica di Torino tra “probità antica” e l’“intelligenza dei tempi”

Torino, cancellata di Palazzo Reale, pannelli con simbolo Medusa, 1840
Torino, cancellata di Palazzo Reale, pannelli con simbolo Medusa, 1840

C’è un testo antico, barocco, finito di stampare, nei Paesi Bassi, nel 1682 dai Blaeu, famosi stampatori di Amsterdam, che nella sua sontuosa bellezza, insieme rigorosa, ostentata (e bugiarda), rappresenta esemplarmente l’anima dei miei concittadini torinesi: il “Teatrum Statuum Regiae Celsitudinis Sabaudiae Ducis Pedemontii Principis Cypri Regis”, un monumento fantasioso, un supporto abbastanza  fanfarone alle ambizioni smisurate del duca di Savoia, Carlo Emanuele II, sedicente sovrano di Cipro e di Gerusalemme, che, forse, neppure sapeva dove stessero sulla carta geografica, e che a fine Seicento si mise in testa di essere re, di possedere palazzi da sogno, di dimostrarlo, non solo dirlo, a tutte le Corti d’Europa. 

Siccome allora poco si viaggiava e poco si poteva verificare, di conseguenza, piante di città, residenze ducali, castelli, chiese, conventi, furono trasfigurati dall’estro di disegnatori, di litografi immaginifici, di cortigiani e grafici tanto devoti, quanto menzogneri. Il decoro urbano, l’ordine perfetto dei paesaggi, il trionfo dell’arte e della cultura, l’opulenza fastosa, esagerata, spesso falsificata, che emanano dalle tavole in gran formato del “Teatrum Statuum” erano così posti al servizio della “Ragion di Stato”. Una propaganda alquanto raffinata, essenzialmente sfacciata, da “panegirico per immagini”, come sostenne Luigi Firpo. Una magnificenza barocca incarnata in un prestigio di carta che, però, ed almeno in parte, servirà a convertire poi il mito in realtà. Nei decenni successivi. Quando Vittorio Amedeo II, il figlio di Carlo Emanuele II, detto la ‘Volpe Savoiarda’, diventerà, dopo varie battaglie perse e poche vinte (anche allora con il determinante aiuto degli alleati e del cugino Principe Eugenio, geniale condottiero al servizio dell’Austria), re di Sicilia, nel 1713, e poi di Sardegna nel 1720. 

Saggezza un po’ sfrontata di piccoli sovrani che pensavano in grande? Probabilmente. Ma così è, ancora oggi. Lo è molta gente della mia città. Provinciali che si credono cosmopoliti, cortesi e compiti furbastri del nord. Gli eredi di coloro che fecero l’Unità d’Italia, grazie ai francesi a Solferino, ai prussiani a Königgrätz, ai camorristi e mafiosi passati con Garibaldi e confratelli   massoni nel 1860, che sempre giocarono d’azzardo, dalla Crimea (o dal ‘600) al giugno 1940, spesso finendo dalla parte dei vincitori, ma, da ultimo, perdendo in modo catastrofico.

Uno Stato vero, certo ordinato, soprattutto se paragonato al gran casino italiano d’ogni tempo, ma con generali mediocri (tanto che i Savoia ne facevano sovente venir da fuori) e truppe abbastanza scalcinate, talora più dedite al saccheggio – Novara e Genova nel 1849 – che alla battaglia. Giù, giù, fino ai Cadorna, Badoglio, Cavallero, Ambrosio…

Quel giorno percorrevo i portici di Via Roma in direzione di Piazza Castello. Mi fermai a prendere un cappuccino al “Caffè Torino”, sempre sontuoso nel suo curvilineo arredamento Liberty, lampadari di cristallo, soffitto a cassettoni, specchi, stucchi e legni pregiati in quantità, anche se diventato troppo di “passaggio”, nel quale più non si entra con il rispetto un tempo dovuto ai nobili ritrovi. Una volta i camerieri del “Torino” erano in livrea, oggi sembrano un’accozzaglia di borgatari dell’ahò, impegnati a servire facendo il maggior rumore possibile! Sosta con successiva, annessa e doverosa sfregatura del tacco sugli attributi del bronzeo taurino davanti all’ingresso, per ingraziarsi la fortuna e sconfiggere eventuali jettature…

Torino, Piazza Castello

Pochi isolati e mi trovai in Piazza Castello dove, alla pari del Thovez, tanti anni prima, anch’io dovetti cadere vittima di quel dono prezioso, ricevuto dal cielo: possedere per clemenza speciale il dono della serietà, autentica e genuina, con connessa e sentita grave dignità. Tanto la falsità e la cortesia sono “virtù” che, da almeno trecento anni, a torto od a ragione, tutti appioppano alla compostezza ed al bel deuit, alle belle maniere, dei miei conterranei. Mettiamoci pure la “serietà”!  

Così presi a leggere, naso all’insù, quelle iscrizioni enfatiche e solenni che caratterizzarono il nostro Risorgimento ed anni successivi, come per dar lustro a fatti alquanto fortunosi e non necessariamente, alla luce del futuro destino nazionale, fortunati. Iniziai dal marmoreo ‘tempietto votivo’ di Piazzetta Reale, a destra, al primo piano, guardando il Palazzo e la cupola della Santa Sindone, traboccante scudi, aquile e  lauri, con, in grandi e visibilissimi caratteri:

“A Re Vittorio Emanuele II, che raccolti sui campi di Novara/ in un giorno di sventura/ lo scettro e la spada del magnanimo padre/ irremovibile nella fede giurata/ gli ordini dello Stato/ concorde il Parlamento/ alle preservate libertà civili conformò/ che rivendicato nella Tauride/ l’onore delle Armi italiane/ il Diritto nazionale/ nei Consigli d’Europa proclamò e difese/ e al grido di dolore delle Provincie oppresse/ sceso  in campo nel nome dell’Italia/ coi sagaci ardimenti e le opportune alleanze/ ad unità di Stato/ accolti i Plebisciti/ la Nazione redenta costituì/ acclamato dagli Italiani in Roma capitale/ PADRE DELLA PATRIA/ questo ricordo/ il Municipio Torinese decretava/ il dì XXV gennaio MDCCCLXXVIII/ quando l’universale compianto/ riconsacrò il voto popolare/ che aveva inseparabilmente congiunti/ i destini/ della Patria e della Monarchia”.

A volte c’è più ideologia riassunta in una targa celebrativa che in codici, leggi, trattati, ponderosi testi cartacei. Pur se redatta in faticoso lessico, ragionai tra me. Continuai sotto i portici della Prefettura, già Palazzo delle Segreterie di Stato ai tempi di Torino capitale, e m’imbattei in alcune grandi targhe commemorative di politici e grand commis del nuovo Stato unitario. Lessi quella racchiusa in marmorei fregi floreali:

“A Memoria e ad Onore/ di/ LUIGI DES AMBROIS DI NEVACHE/ Cavaliere dell’Ordine dell’Annunziata/ che lasciò fra quanti lo conobbero/ vivissimo desiderio di sé/ e tracce gloriose dell’opera sua/ nella storia del Risorgimento italiano/ Ministro del magnanimo Re Carlo Alberto/ propose la prima idea/ del traforo delle Alpi/ dal Sovrano sapientemente accolta/ fu tra i principali compilatori/ dello Statuto Fondamentale della Monarchia/ fece parte del Primo Ministero Costituzionale…(omissis)… Meritò giustissima lode/ per rettitudine d’animo altezza di mente/ vastità di sapere e maturità di consiglio”. 

Che belli i cognomi dei nobili savoiardi! Come suonano bene: des Ambrois de Nevache, Thaon de Revel (un ammiraglio della famiglia fu il primo Duca del Mare), Sallier de la Tour… 

Svoltai a destra, un’occhiata alla pessima ricostruzione moderna del vecchio Teatro Regio, bruciato nel 1936, e mi trovai in Via Po, la Via del Po, decisa dall’ “Adriano del Piemonte”, quel duca Carlo Emanuele II che volle il “Teatrum Statuum”,  disegnata da Amedeo di Castellamonte.

                                                                  

Figlio di una sorella di Luigi XIII (Maria Cristina, la prima Madama Reale) e cugino del Re Sole, quando finalmente poté liberarsi della tutela dell’ambiziosa ed ingombrante genitrice, il giovane duca si trovò con le casse dello Stato vuote, l’esercito in sfacelo, il prestigio dello Stato – minato dalle guerre tra la madre e gli zii Tommaso e Maurizio, gli assedi e le occupazioni di eserciti stranieri – pressoché inesistente. 

Carlo Emanuele si rimboccò le maniche, diede mano a riforme drastiche, applicò una politica da New Deal ante-litteram, cambiò il volto architettonico di Torino, dando al centro  quell’impronta che sarebbe poi, in gran parte, giunta fino a noi, da Piazza San Carlo a Via Po, appunto. Progettando, costruendo. Quello che non poteva fare con i mattoni lo faceva nelle incisioni del “Teatrum Statuum”, con una certa insolenza, come accennato.  Si sentiva un principe che voleva essere a capo di un Stato vero, uno Stato autorevole, rispettato. Morì giovane, ma quelle aspirazioni vennero raccolte dal figlio Vittorio Amedeo II, il più brillante rappresentante d’una dinastia sabauda zeppa di mediocri.

Per riporre le forze, attraverso Via Po, ed entro da “Mulassano”, caffè cult dei torinesi DOC, dove m’ingozzo di panini al salmone, all’aragosta, al tartufo, accompagnati da un Prosecco freddo, molto adatto ai soffici tramezzini. Torno sotto i portici di Via Po, con la vecchia e solenne vetrina lignea di Giacomo Musy (Musy Padre & Figli), gioielliere, orafo ed argentiere di Casa Reale, dal 1707, appena terminato l’assedio, proprio all’inizio della Via, al n.1. 

Al numero 8, sulla destra, c’è il “Caffè Fiorio”, attivo sin dal Settecento, un tempo il Caffè dei “codini e dei machiavelli”, cioè dei reazionari e dei nobili conservatori, i padri dei “compromessi nei moti del 1821”,  per intenderci, ma dopo la scorpacciata da Mulassano mi limito a sbirciare da fuori la decadenza d’un locale ancora riservato e fanée  negli interni poco illuminati, ma dall’ingresso diventato anonimo e frequentato da gente malvestita. Una volta ci si “vestiva” per andare a passeggio in Via Roma o per prendere un gelato da “Fiorio”, perbacco! 

A questo punto, mi vien voglia di entrare nel Palazzo dell’Università al n. 17. Da anni sede del Rettorato, di uffici e di locali di rappresentanza di un Ateneo la cui fama divenne grande, per paradosso, dopo l’Unità ed il trasferimento da Torino a Firenze, e poi a Roma, della capitale del nuovo Stato. Ha cominciato a piovere, una pioggiarella tipica della primavera torinese. Che fa sembrare Via Po ancora più vera. Del resto, i tanti chilometri (pare 18) di portici di Torino, non servono proprio per questo? Per conservare spazi e zone asciutti, o relativamente asciutti, quando attorno domina, onnipotente, l’umidità?  O li volle, come si racconta, un sovrano per passeggiare senza bagnarsi, banalmente, dal Palazzo Reale sino al fiume Po?

Entro, dunque, dopo molti anni, nel Cortile del Palazzo dell’Università, un duplice loggiato settecentesco, con molte statue, targhe, iscrizioni commemorative, nel centro un’orribile scultura a cubo gigante, di quelle che riescono a farti odiare visceralmente tutta l’arte contemporanea. Tra le molte statue e busti, vi è anche un  busto ottocentesco dedicato all’abate Giambattista Vasco, l’economista e riformatore della seconda metà del secolo XVIII, del quale scrissi, vivendo ancora a Torino, giovane assai, una biografia che si chiudeva, a proposito di quel postumo omaggio, modellato da Vincenzo Vela: “del quale oggi si distinguono a fatica i tratti, infardato com’è dalla polvere, dalle deiezioni, dal tritume”. Un modo un po’ decadente, lo riconosco, di terminare la mia modesta fatica.

Non ho voglia, però, di andare a cercare quel busto. Mi metto, invece, a leggiucchiare le scritte sotto i monumenti e busti più rilevanti, al piano terreno. Oggi mi sono svegliato sotto il segno della serietà, del resto. E così m’imbatto, in un tripudio di maiuscole, in:

 “A Ricordo/ del Giorno 4 Settembre 1506/ In che fu Laureato nella Università di Torino/ ERASMO DI ROTTERDAMO/  Sommo Filosofo/ degli Studi Greci e Latini Libero Ristauratore/ Alcuni Ammiratori Suoi/ A Dì 4. 7bre 1876./ Posero”. 

                                           

Ancora: 

“AD AMEDEO PEYRON.  Mente di mirabile acume spazio, con lena infaticata nel campo dell’alta filologia e della critica storica e in dottissimi lavori lasciò splendidi vestigi del suo ingegno, nel corso di una vita quasi secolare mantenne saldo ed operoso il vigor dell’intelletto. Orientalista insigne professò lungamente in questo a Ateneo”. 

Senatore nel 1848. Morto a Torino ad 84 anni, nel 1870. A quei tempi 84 anni dovevano sembrare un secolo! Amedeo Peyron, certo un suo discendente, fu sindaco democristiano di Torino dal 1951 alla morte, nel 1962. Amava le rotatorie fiorite. Ma è leggendo la vicina iscrizione, sotto il cippo a Cesare Alfieri di Sostegno, Ministro della Pubblica Istruzione, Presidente del Consiglio dei Ministri e del Senato, diplomatico, estensore dello Statuto Albertino, che sono colpito da un’espressione che la retorica post-risorgimentale certo amava, ma che mi sembra meritevole di una riflessione non superficiale: 

“Servì la patria con probità antica e con intelligenza dei tempi”.

“Probità antica”. I valori, veri o presunti, ai quali rendeva omaggio quella classe dirigente, spesso massone ed anticlericale, prevalentemente aristocratica, in pochi casi alto-borghese, che nello Stato, nel suo servizio puntiglioso, stava fissando la cornice di una nuova fede. Una fede civile, un sistema di valori che non coincideva più, né con la dottrina, né con la prassi del cattolicesimo tradizionale. Saldandosi, in modo talora disinvolto, con quell’etica, idealizzata, dell’ antica Repubblica di Roma e con alti esempi di virtù pubbliche. 

Etica pubblica che aveva fornito alimento alle utopie rivoluzionarie che si erano ampiamente ispirate alle prische virtù del mondo classico. Opzione ideale favorita, anche, dal clima culturale neoclassico, che inizia come reazione al tardo-barocco ed al rococò, verso il 1765, alimenta il neoclassicismo architettonico e delle arti plastiche, da un lato, ed il pensiero illuminista dall’altro. Clima determinato, pure, dai coevi scavi di Pompei ed Ercolano, dagli studi del Winckelmann, dall’ideale fidiaco nella scultura, dal raffaellismo nella pittura, dalla Rivoluzione di Francia e poi dall’Impero, la cui simbologia, ricca di fasci littori, si rifaceva tutta alla rettitudine, eguaglianza, rigore, ancor più che gloria, di una virtuosa Roma repubblicana, tanto idealizzata, quanto poco vera storicamente. Canova, David e l’illusione di un’architettura classica, eterna, fuori dal tempo, cosmopolita, buona per tutti.

“Intelligenza dei tempi”. La comprensione ed accettazione del nuovo, suppongo, l’istinto gattopardesco per la sopravvivenza di una classe sociale, di una élite dirigente, probabilmente. La Realpolitik applicata all’interno dello Stato, non più solo nelle relazioni internazionali. Non unicamente la mutazione e l’evoluzione maturate al tempo della Grande Révolution  e poi imposte dalle Armate del còrso usurpatore, a lungo baciato dalla dea della Vittoria. I princìpi del massonico “Liberté, Egalité, Fraternité”, poi tradottisi, bene o male, prima o poi, in soppressione dei feudi, servizio militare obbligatorio, istruzione obbligatoria, uguaglianza di fronte alla Legge, abolizione della pena capitale, lento miglioramento della condizione femminile, suffragio universale. 

Ad un Ancien Régime, idealizzato nella rivisitazione, potevano guardare i De Maistre ed i Solaro della Margarita, ma non il grosso di una classe dirigente sabauda che aveva appreso dai padri l’ammirazione per il gran Federico di Prussia, despota sì, ma anche forgiatore di uno Stato e di un Esercito formidabili. Una Prussia ancora arcaica, per certi versi, ma il primo Stato europeo a decretare l’istruzione obbligatoria, alla metà del XVIII secolo, che solo cento anni dopo la Sinistra Storica sarebbe riuscita ad applicare (e malamente) in Italia. Inconfessabile, ma sicura, l’ammirazione per la Francia Imperiale, allorché Torino, da sempre alpina e padana città di transizione, venne ridotta a capitale di un Dipartimento, con la ghigliottina che funzionava spesso e volentieri in Piazza Carlina e buona parte della vecchia nobiltà che bon gré mal gré si era adattata ai tempi, con l’ “intelligenza” loro dovuta, e la malcelata convinzione che vi erano “princìpi”, in quel dispotismo di matrice giacobina, comunque destinati a trionfare. Quelli che spingeranno alla rivolta i giovani aristocratici dei ‘moti del 1821’, duramente repressi.

Qui passeggiavano anche quei gentiluomini, dal volto arcigno e distante, magari Collari dell’Annunziata, cugini del re, uomini della sintesi tra la “probità antica” e l’ “intelligenza dei tempi”, che pure disponevano di carrozze e servi in livrea, che forse non pensandolo sino in fondo, ma con lodevole senso pratico, hanno reso possibile il riscatto dall’oscurantismo cattolico e, contestualmente, posto le basi dell’osmosi sociale, non solo la fine dell’assolutismo monarchico…

Classe dirigente a volte gretta, non stupida, non cieca, spesso curiosa di quanto avveniva Oltralpe, anche grazie all’uso quotidiano del francese, alla lettura delle opere delle Lumières (magari escluse quelle più radicali) ed al legame con il Ducato di Savoia, poi restituito ai Savoia dal Congresso di Vienna; classe concreta e realista, forse un po’ ottusa nel maneggiare le grandi categorie della filosofia e del diritto, ma perspicace abbastanza per capire lo spirito dei tempi nuovi. Sentimenti, aneliti, priorità, esigenze. Cesare Alfieri di Sostegno, cugino del grande e sdegnoso conte Vittorio, simboleggia bene il suo tempo.

 Dio, seppur non rimosso, si riduce ad una dimensione intima, privata. Il nuovo “assoluto” non è più né la Chiesa, né la monarchia, ma lo Stato laico in piena costruzione, già hegelianamente “etico”, quello di Cavour e Siccardi, ma anche di Rattazzi, Massimo d’Azeglio e di tanti altri moderati.  Stato che avanza dietro il Parlamento, il suo cocchiere. Il Parlamento, incurante delle tetre profezie di Don Bosco e degli anatemi clericali che fecero tentennare il Re, travolto da lutti familiari in serie, approva, a larga maggioranza, nel 1850, la Legge Siccardi per l’abolizione del Foro Ecclesiastico, il diritto di asilo e l’inalienabilità dei possedimenti ecclesiastici, la manomorta;  poi, nel 1855, con la Legge Rattazzi, la soppressione di molti Ordini religiosi.  Colpi formidabili ai privilegi della Chiesa Romana, rafforzati ulteriormente, dopo l’Unità, dai provvedimenti del 1866 e del 1867 (soppressione di  enti, Ordini, congregazioni ed incameramento dei beni del Clero Regolare) ed, infine,  dall’incremento  imparabile della secolarizzazione, a seguito della ‘Presa di Roma’, il 20 settembre 1870, e della II rivoluzione industriale.

Riflettendo su questi temi sono così giunto alla grande Piazza Vittorio, dove a Carnevale, quand’ero bambino, venivano allestiti baracconi, giostre, giochi, autoscontri, tirasegni, bianchi e luminosi posti-vendita di torrone d’Alba. Dove c’era un terrificante ottovolante, il cilindro ed il globo con pazzi motociclisti che eseguivano piroette pericolose, numeri quasi incredibili. 

Ai piedi della collina la chiesa della Gran Madre di Dio, cara ai misteriosofici ed esoterici per essere stata edificata sulle rovine di un fantomatico tempio egizio e per essere colma di supposti simboli magici, di segni alchemici. Grande chiesa neoclassica, simile al Pantheon, voluta dal Re Vittorio Emanuele I in ringraziamento per il ritorno a Torino, nel 1814. Ritorno salutato dal giubilo generale, sempre facile quando s’annuncia un’era di pace, ma presto degenerata per l’ “accumularsi di ingiustizie e scioccherie”, per usare i termini del pur moderato Massimo d’Azeglio. Il vecchio abate Denina, con l’opuscolo “Dell’uso della Lingua Francese”, solo pochi anni prima, nel 1803, aveva sostenuto, con spirito cortigiano ed assieme pragmatico, che i suoi conterranei avrebbero avuto solo da guadagnarci dall’adozione della lingua del potente vicino, premessa all’incorporazione del Piemonte nel vasto Impero.

Io sono stato ammesso e diventato, col tempo, parte attiva di quel sacerdozio civile, condiviso e stimato, che nel servizio dello Stato trovava ancora le ragioni quotidiane del vivere, dell’agire, del migliorare.  Certo, la FIAT e centinaia di altre fabbriche ed imprese erano sorte tra l’epoca dei Cesare Alfieri e la mia giovinezza. Altre e più grandi caserme. Torino ne era rimasta profondamente mutata. La sua popolazione cresciuta, dai 200.000 abitanti del 1861, quasi al milione. Eppure lo Stato, continuava ad essere una sirena seducente. Quello Stato – scuola, caserma, talora carcere, ma che ai benpensanti, fra i quali non da oggi mi arruolo senza rossori, ammiratori di una società ordinata, retta da un Governo centralizzato, autorevole, ben organizzato, un tempo tutt’ uno con la nostra monarchia sabauda, dura e rispettata – che continuava a costituire  e rappresentare una scelta di prestigio, di realizzazione individuale se non più di affermazione sociale. Prima che gli uzzoli sull’ “essenza della torinesità” ed il terrorismo dell’estrema sinistra cominciassero a rodere le mie certezze, c’era stato un periodo nel quale ero soddisfattissimo di essere e sentirmi profondamente torinese. Di abitare la città più bella d’Italia, tra le Alpi e la collina, lambita da un placido fiume. Città di gente onesta, testarda e laboriosa. 

Quando noi producevamo tante cose e le auto migliori, con i  carrozzieri più creativi ed in gran quantità (‘Fiat Terra, Mare, Cielo’, il maggior produttore d’Europa), quando avevamo una Università con docenti prestigiosi, medici ed ospedali al top, grandi editori che pubblivavano tomi ponderosi, con “draghi” ai quali non sfuggiva un solo refuso, un susseguirsi di spettacoli e manifestazioni, un treno che lo prendevi alla sera ed il mattino dopo scendevi alla Gare de Lyon,  a  Parigi, il tunnel sotto il Monte Bianco che ti portava a Ginevra in tre ore d’auto, un ‘Trident’ della BEA al Heathrow London Airport in un’ora e mezza, la Juventus (almeno per me, che non ero granata!) che mieteva titoli su titoli, ristoranti, pasticcerie, cioccolato, tartufi, carni, selvaggina prelibata, vini di altissima qualità. Sì, specialmente dopo il 1961, le celebrazioni del Centenario dell’Unità e fino alla cancrena degli ‘Anni di Piombo’ e dell’ ‘Anonima Sequestri’, Torino mi sembrava, se non il centro dell’universo, almeno un gran bel posto per viverci.

Continua intanto a frullarmi per la mente quella “probità antica, intelligenza dei tempi“. L’intelligenza è la facoltà mentale che consente d’interagire con la realtà favorevolmente. Ovvio. E la probità non è forse, ripensando adesso al bel romanzo-saggio di Jean d’Ormesson, “Au Plaisir de Dieu”, l’abbandono al volere di un Dio che si confonde con un passato lontano?  Le ragioni dell’oggi ed il cuore del passato?

Quella “probità” non sarebbe logico attribuirla, oltre che al passato, a quell’insieme di valori che costuirono l’impalcatura dell’Ancien Régime, quel principio dinastico enfatizzato a posteriori dal legittimismo trionfante al Congresso di Vienna, nel 1815? E l’ “intelligenza” non appare solo artifizio, saldatura obbligata, ma tortuosa, di nuove aspirazioni con l’eredità della storia?

Se quel concetto di “probità” lo spostiamo dalla idealizzata Repubblica di Roma e lo trasferiamo ad epoche più vicine, non diviene esso un tutt’uno con quell’idea di cosa vetusta, consacrata dal tempo, dalla ragione storica, dalla consuetudine? Come tale, necessariamente buona, positiva, naturale; il fondamento della tesi di Burke nelle Reflections on the Revolution in France, manifesto del pensiero antirivoluzionario, pamphlet  autorevole e seducente contro l’ “ignobile oligarchia, fondata sulla distruzione della Corona, della Chiesa, della nobiltà e del popolo”? Allora, l’ “intelligenza dei tempi” non discende a categoria minore, uno sforzo faticoso di adattamento, unicamente al fine di garantire la sopravvivenza di una parte almeno della “probità antica”, il vero e superiore valore?

 Ne I miei ricordi, Massimo d’Azeglio rivendica al tempo della propria gioventù un “odio profondo per la nobiltà”, la sua classe sociale, quel “governo di balordi, ignoranti, pieni di fumi e di pregiudizi”, il che non gli impedì poi di essere un moderato conservatore. Come lo erano, fra gli altri, i Balbo, i Cavour, gli Alfieri, i Provana. 

La “probità” non è un elemento certo ed alto, mentre l'”intelligenza” un dato dinamico, camaleontico, trasformistico che si applica alle circostanze? L’adattamento, che simula, più che credere veramente, non una forza autonoma con propria, autorevole ideologia? Insomma, quella che i francesi definirebbero, sbrigativamente, “art du vivre et surtout de survivre”?

Sempre, in tutte le epoche, il nuovo, riformista o rivoluzionario, ha recuperato dal passato ciò che gli serviva. Quei severi gentiluomini, almeno nella pubblica immagine, ed i loro seguaci, ci tenevano tanto a rivendicare quella duplice ascendenza (probità=passato, intelligenza=nuovo), quella fusione, speculare al “diritto di Dio e volontà della Nazione”, con puntiglio, proprio perché, in fondo, un po’ o tanto di cattiva coscienza ce l’avevano, per aver trascurato, se non tradito, la ratio della legittimità dinastica?

 Una legittimità fatta scaturire dal diritto naturale, quello che sta scritto nel cuore degli uomini. Per secoli l’unico collante di uno Stato, il Piemonte e  la Savoia, in perenne mutazione di configurazione territoriale, quando la “Nazione” era ancora un termine lontanissimo da “Patria”, la manzoniana “Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor”. Quando i Savoia, paradossalmente, rivendicavano, con genealogie più fantasiose del “Theatrum”, una pretesa ascendenza sassone, aspirando, addirittura, a diventare Principi Elettori di un Sacro Romano Impero che ormai viveva solo più un’esistenza nominale e cerimoniale. Volevano, quei gentiluomini, “salvare il salvabile”, come sosterrà, in un ben diverso contesto, uno dei peggiori rappresentanti di quella casta militare piemontese, maneggiona, senza scrupoli, l’uomo dell’8 settembre  ’43?

Onesti, intellettualmente onesti, c’erano anche, e forse soprattutto, tra i superstiti reazionari, i codini, e gli uomini “tutti d’un pezzo”, come il marchese Cesare, padre di Massimo d’Azeglio, che non  per egoistico attaccamento alla “roba”, anzi, rinunciando talvolta a carriere brillanti e ad onori, si mantennero ai margini, non si fecero coinvolgere dall’ “intelligenza dei tempi”. Nessuno più si ricorda di loro. Il gran fiume della storia se li è portati via, così come non ha neppure risparmiato, salvo eccezioni, i seguaci e fervorosi adepti dell’ “intelligenza dei tempi”.

 L’aristocrazia stava finendo, ovunque, come classe dominante, socialmente e culturalmente, sostituita da una borghesia che in gran parte l’imitava. Più tardi da quel ceto medio d’oggi, carente di chiari connotati di classe, amorfo. Quell’amorfismo tendente al nichilismo, che diventa la base della devastante solitudine psicologica, che sembra imperare sovrana.

Siccome non sono ancora soddisfatto delle mie elucubrazioni su “probità” ed “intelligenza” cerco  poi conforto in Internet. Nulla sull’ intelligenza dei tempi e non molto sulla probità antica. Ma su di essa apro un sito che mi conduce a nuove riflessioni. È il Discorso di Vittorio Emanuele II, non ancora Re d’Italia, dell’8 ottobre 1860, da Ancona, “Ai Popoli dell’Italia Meridionale”. Dice quel discorso, forse di pugno del Cavour, forse di un suo collaboratore:

“In Sicilia questa inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta. Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode Guerriero, devoto all’Italia ed a me, il Generale Garibaldi salpava in suo aiuto. Erano Italiani che soccorrevano Italiani: io non poteva, non doveva tratternerli!” Ed ancora: “alcuni atti diedero a temere che non bene interpretasse per ogni rispetto quella politica che è dal mio nome rappresentata. Tutta l’Italia ha temuto che all’ombra di una gloriosa popolarità e di una PROBITÀ ANTICA tentasse di riannodarsi una fazione pronta a sacrificare il vicino trionfo nazionale alle chimere del suo ambizioso fanatismo…(omissis)…nella attuale condizione di cose non sarebbe moderazione, non sarebbe senno, ma fiacchezza ed imprudenza il non assumere con mano ferma la direzione del moto nazionale, del quale sono responsabile dinanzi all’Europa. Ho fatto entrare i miei Soldati nelle Marche e nell’Umbria disperdendo quella accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che qui si era raccolta, nuova e strana forma di intervento straniero, e la peggiore di tutte. Io ho proclamato l’Italia degli Italiani, e non permetterò mai che l’Italia diventi il nido di sette cosmopolite che vi si raccolgono a tramare i disegni o della reazione o della demagogia universale… (omissis)…In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità delle Monarchie. In Italia so che io chiudo l’era delle rivoluzioni!”

Ecco, mi pare di scoprire, al di là del linguaggio involuto, della diffusa ipocrisia e mezze verità di gran parte del Discorso, e non è una scoperta straordinaria, il senso più autentico del rapporto tra la “probità” e l’ “intelligenza”. La probità sta all’intelligenza come il primato dei doveri sta al primato dei diritti, ovvero, come la “destra” sta alla “sinistra”, semplificando all’estremo. Come Drieu La Rochelle e Fecia di Cossato, che si suicidano per non poter più onorare un giuramento od un sentimento, stanno agli “uomini del compromesso”, gli eterni pragmatici, realisti, “guicciardiniani”, pur non necessariamente vili e disprezzabili. 

La nobiltà savoiarda e piemontese era una nobiltà di servizio ed aveva goduto, per secoli e secoli, di una continuità dinastica che aveva rinsaldato legami ed interessi reciproci tra la stessa e la Corona. La nobiltà era il serbatoio dal quale trarre gli uomini per la gestione della Cosa Pubblica, in pace ed in guerra, per le Segreterie di Stato e per l’Esercito. Dopo la testa caduta di Luigi XVI, l’incorporazione del Piemonte nella Francia imperiale, e nonostante la Restaurazione del 1814, quel rapporto si era fatalmente incrinato, in Piemonte come altrove. 

Anche se l’ “ottriato” Statuto Albertino del 1848 aveva riservato ampi poteri al Sovrano, tra i quali l’esclusiva responsabilità del Potere Esecutivo e la diarchia, con il Parlamento, di quello Legislativo, era già abbastanza chiaro che con lo Statuto non solo finiva l’Assolutismo, ma che si ponevano fragili basi alla Monarchia Costituzionale, destinata ben presto a divenire Monarchia Parlamentare, quindi un istituto essenzialmente rappresentativo, senza veri poteri. Che può cadere per volontà dei politici, non solo della piazza. 

Sarà il destino delle monarchie europee. Era la fine preannunciata, anche senza date, della dinastia sabauda, ancor prima che il Fascismo e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale (per non parlare della mediocrità personale dei sovrani) ci pensassero a fissarle.

Cavour – abile, capace e non deteriore uomo di compromesso – pensava di chiudere l’ “era delle rivoluzioni” con Statuto ed Unificazione dell’Italia, nel segno di uno Stato laico, centralizzatore, economicamente liberale e moderatamente progressista socialmente, un po’ com’era stato il breve dominio napoleonico. Ci credeva veramente? Per lui e quel gruppo dirigente, la monarchia non era forse quella parte di “probità antica” che, per salvarla nella sostanza, bisognava, comunque, ‘modernizzarla’? Sacrificarne una parte all’ “intelligenza dei tempi”, cioè al pensiero moderno, figlio del razionalismo, dell’illuminismo, della Grande Révolution, della massoneria, dello spirito democratico.

Probabilmente il sentimento dinastico – la stessa permanenza e stabilità della monarchia come fattore di ordine – era meno forte del sentimento di salvaguardia degli “interessi di classe”, delle egemonie vigenti e consolidate, direbbero i marxisti, ma è pur vero che, anche al di là delle loro aspirazioni, quegli uomini lasciarono un legato non disprezzabile alla ‘Nuova Italia’. 

Forse che avevano concretamente di meglio da offrire i Massimo d’Azeglio, scettici e dubbiosi su quell’Unificazione Nazionale rocambolesca, affrettata ed un po’ cialtronesca? Con il  Dittatore generale Garibaldi che in poncho uruguagio arriva a Napoli direttamente in treno, prima della battaglia decisiva, anticipando, almeno come mezzo, di vari decenni, Mussolini, convocato da Vittorio Emanuele III per formare il Governo nel 1922, in pieno clima sedizioso…  O forse il noioso Mazzini, con tutte le sue risibili maiuscole su Patria ed Umanità, Dio e Popolo, Patria Altare dell’Umanità, la Libertà che mai può venire a patti con il Dispotismo, lo Spirito del Tempo che irresistibilmente tende alla Libertà ed all’Uguaglianza per tutti i Popoli… e così via?

A me piace camminare sotto i portici di Torino. Non so perché, ma mi fa bene. Camminare da solo, camminare anche ad occhi chiusi, fermarmi poi a guardare quel che voglio, entrare nei caffè e nelle librerie che mi attraggono. Si tratterà della ermetica bellezza di Torino, come disse qualcuno, della infinita poesia che riuscì fatale a Nietzsche, il 3 gennaio 1889?  Provocando la perdita della parola, l’irreversibile demenza e megalomania del filosofo? A Torinói ló (Il cavallo di Torino) è pure un film del 2011 del regista ungherese Béla Tarr e della moglie Ágnes Hranitzky.

Nell’aprile ed autunno del 1888, Nietzsche lavora all’Ecce Homo e ad altre opere  in una stanza d’affitto, affacciata sulla Piazza Carlo Alberto, un isolato da Via Po. Il filosofo, dopo un piacevole soggiorno in primavera, era tornato a Torino nel settembre 1888 cercando il clima migliore per la sua salute, fisica e psichica, già compromessa. La città lo entusiasmava: magnifica, dignitosa, con una quiete aristocratica, la cortesia della gente, col suo inimitabile cioccolato; l’autunno vivacemente colorato e l’aria tersa delle vicine montagne rappresentarono il momento della sua ‘grande vendemmia’. La città era come un quadro luminoso. 

Nietzsche aveva con la “probità antica” e l’ “intelligenza del tempi” un rapporto assai peculiare. Il 15 ottobre 1944 (A. XXII E.F.) la città ha posto, al piano terreno di quell’edificio dove il filosofo soggiornò, una targa che neppure i partigiani han poi rimosso o vandalizzato. 

Chissà. È un qualcosa d’indefinibile che trasmette la mia città, una sorta di pienezza, d’appagamento, di vitalità rinnovata.

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Gianni Marocco

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