Cultura. “Storia Rivista”, l’altro ’68: tutte le rivolte che incendiarono il Sud

Pubblichiamo l’articolo di apertura del Dossier sulle rivolte patriottiche, firmato da Alessandro Amorese, editore e direttore di Storia Rivista, periodico di approfondimento revisionista

 

Già durante alcune delle forti proteste che incendiarono, per l’ultima  volta, città intere del Sud, la maggior parte dei commentatori liquidarono quegli avvenimenti come un problema di ordine pubblico, come ribellioni senza idee e obiettivi seri, strumentalizzate da alcuni movimenti politici.

Nel migliore dei casi l’analisi non andava oltre la definizione di protesta fondata sui ‘municipalismi’.

È sicuramente vero che a Pescara prima e a L’Aquila poi, l’origine del malcontento diventato insurrezione prende vita dalle decisioni sul capoluogo di regione, sulla divisione delle sedi (giunta e assessorati). Pescara scende in piazza in seguito alla decisione del Consiglio dei ministri di nominare il Prefetto dell’Aquila commissario governativo alla Regione, è il 26 Giugno 1970.

Esplode la guerriglia urbana, ma alla testa dei cortei ci sono sindaco e vescovo che combattono quella ‘guerra fredda’ per diventare capoluogo d’Abruzzo: “Comincia bene l’Italia delle Regioni!”, esclama Giampaolo Pansa sulla “Stampa” del 25 giugno, nel raccontare i moti pescaresi con i blocchi del traffico ferroviario e della Statale Adriatica. Passa meno di un anno e le campane delle chiese del centro storico aquilano chiamano alla battaglia: il consiglio regionale, riunito la sera del 27 febbraio 1971, mentre in Tv impazza il Festival di Sanremo, decide di frammentare le rappresentanze regionali fra l’Aquila e Pescara, dove potranno riunirsi consiglio e giunta con sette assessorati a quest’ultima e solo tre a l’Aquila che era comunque capoluogo. La collera si riversa su quasi tutti i partiti, colpevoli, agli occhi della folla, di aver accettato e sancito la “lacerazione dei sacrosanti diritti dell’Aquila” come si legge in un manifesto del Comitato cittadino d’Azione. È una lunga storia di divisione e forte rivalità quella tra i due centri abruzzesi, alimentata da giochi di potere, decisioni rimandate di anno in anno dopo la scelta dell’istituzione delle Regioni. La Democrazia Cristiana con il dualismo fra Remo Gaspari e Lorenzo Natali aveva esacerbato la tensione campanilistica, eccitando le due popolazioni come spiega benissimo Raffaele Delfino in un intervento alla Camera il 26 Giugno ’70: «Voi questo problema (quello della scelta del capoluogo, NdA) lo avete ingigantito e i socialisti vi hanno seguito dalle opposte sponde. E la polemica è continuata in tutti questi anni. Quindi la gente poi ha veramente creduto che questo fosse il problema essenziale. Prima li avete ingannati dicendo “con le regioni risolveremo i problemi del Mezzogiorno che non abbiamo risolto in vent’anni” e poi nell’inganno avete inserito in Abruzzo e in Calabria l’inganno del capoluogo, dicendo che attraverso il capoluogo avreste risolto i problemi sociali, i problemi economici, i problemi dell’emigrazione, della disoccupazione, del sottosviluppo. La gente si è fanatizzata su questo problema: se ha trovato e trova nel capoluogo, nella battaglia del campanile questo sfogo, la colpa è vostra per le indicazioni errate che avete dato e per quello che avete sottratto a questa gente: perché quando si sottrae una bandiera nazionale è evidente che si va alla ricerca anche del gonfalone municipale».

Egidio Sterpa, in quel periodo inviato del Corriere della Sera (fino al 1950 dirigente giovanile missino) è in quel febbraio a l’Aquila e tratteggia quella Rivolta come «poujadismo municipalistico, di cui sono protagonisti commercianti, professionisti, impiegati, gente che teme per il proprio futuro». È proprio Sterpa a sottolineare la partecipazione attiva e quasi egemonica della destra, giovanile e non, nella ribellione aquilana (così come a Pescara). Il protagonismo del mondo missino è dimostrato anche dal fatto che l’unica sede risparmiata dagli assalti della folla è propria quella del partito con la fiamma tricolore e non solo perché il consigliere aquilano del Msi votò contro alla risoluzione della Regione (e fu l’unico). Questo aspetto descrive la rivolta aquilana, nella sua brevità, come più cruenta di altre: la Federazione del Partito comunista viene invasa e distrutta, i mobili gettati dalla finestra, alcune abitazioni private (come quella di un consigliere democristiano) assaltate ed incendiate. Claudio Petruccioli, storico esponente del Pci, in quel periodo segretario regionale, ideatore del compromesso L’Aquila-Pescara su capoluogo e giunta (che peraltro non fu più toccato) ha rievocato quei giorni in un libro che corregge anche il tiro rispetto alla speculazione politica antifascista che il partito comunista fece chiamando in Abruzzo e non solo all’unità antifascista, addossando quindi alla destra politica italiana la colpa delle violenze provando nell’equilibrismo di salvare invece il giusto risentimento popolare. Sempre Raffaele Delfino, allora deputato e tra i leader abruzzesi del Msi, rispose con un lungo discorso alla Camera (pubblicato poi nell’opuscolo “La speculazione comunista sulla Rivolta dell’Aquila”) del 3 marzo 1971, ricordando la coerenza missina contro le Regioni e gli errori del Pci che lo portarono a ritrovarsi tra i maggiori bersagli della Rivolta. Per Delfino il Movimento sociale era diventato il capro espiatorio dell’arco costituzionale per coprire sia gli errori fatti con la scelta dei capoluoghi che in generale i mali del Meridione.

Delfino rivendicò semmai la paternità a destra dell’aver risvegliato l’interesse verso le popolazioni abbandonate del sud Italia e tentò di tutelare la linea legalitaria che a livello nazionale il partito portava avanti, negando una partecipazione violenta dei missini alla sommossa aquilana.

Se quella di Reggio Calabria è stata la Rivolta sociale più lunga della storia repubblicana (luglio 1970-febbraio 1971), caratterizzata da violenze sia da parte dei manifestanti che delle Forze dell’Ordine, non bisogna dimenticare che è stata preceduta da altre sommosse, contrassegnate anche in questo caso da episodi sanguinosi.

Avola, 2 dicembre 1968 Nel grande centro agricolo siciliano di Avola (Siracusa) il 2 dicembre ’68 uno sciopero dei braccianti trascende in scontri pesantissimi con la polizia, provocando due morti e decine di feriti. Nell’alveo missino chi prende una posizione netta a favore dei braccianti è la Cisnal, il sindacato di riferimento della destra politica, che nel suo congresso nazionale rafforza la propria volontà di aumentare presenza e protagonismo, avendo previsto in anticipo la stagione dei forti fermenti sociali. Questo che sembrerebbe un chiaro gioco delle parti è delineato bene da Gianni Scipione Rossi nel suo libro Alternativa e doppiopetto che affronta le vicende missine nel periodo ’68-’73 e che si può condensare così: «Il Msi si pone davanti all’emergenza sociale in atteggiamento difensivo. Ciò contribuisce ad accrescere nei suoi confronti le simpatie dei settori più moderati della pubblico opinione, ma lo condanna a sfruttare solo in parte il potenziale elettorale antisistemico che va formandosi soprattutto nel Sud. Il partito dà spazio ad una propaganda basata sulla tesi che il caos viene alimentato dalla crisi di governo e si avvia a concludere la graduale evoluzione che lo porta a fornire di sé una netta immagine da “partito d’ordine”, mentre i suoi giovani sono mobilitati a contendere anche sul piano fisico lo spazio politico agli avversari».

La politica del “doppio binario” missino è confermata ancora di più circa cinque mesi dopo a Battipaglia, esattamente il 9 aprile, dove a partecipare alla ribellione ci sono numerosi lavoratori della Cisnal (e missini) e gli studenti della Giovane Italia. Paradossalmente a segnalare e ribadire la presenza attiva della destra politica nelle rivolte saranno soprattutto esponenti politici e buona parte della stampa della galassia della sinistra più o meno radicale.” l’Avanti!’, quotidiano socialista, scriveva che «vi sono responsabilità e carenze di organi istituzionali e forze politiche da esaminare, fermo restando il dovere immediato di restaurare la legalità democratica sempre più apertamente e pericolosamente insidiata dalla sovversione di destra. Il caso dell’Aquila ha, perciò, valore di una prova d’appello». Lotta Continua, quindicinale dell’omonimo movimento, parla dei moti di Reggio Calabria come una “lezione da imparare”: «Siamo stati i primi a difendere ed esaltare la lotta dei proletari di Reggio, forse sottovalutando il ruolo e la portata dell’intervento fascista. Abbiamo cominciato ad agire nel senso della solidarietà proletaria attorno a Reggio organizzando manifestazioni al nord. Poi abbiamo taciuto e fascisti, padroni, revisionisti hanno avuto mano libera».

Vie Nuove, settimanale vicino alla Fgci, il movimento giovanile del Partito comunista, sostiene quanto sia «evidente il disegno di provocazione fascista che si muove dietro le barricate e la protesta meridionale, e che non mira solo alla Calabria e al sud dell’Italia» e cita anche uno stralcio della relazione di Massimo Anderson, segretario nazionale del Fronte della Gioventù, ad un convegno a Napoli sui problemi del Mezzogiorno: «Il sud è insieme una polveriera e una riserva: una polveriera da far esplodere contro gli equilibri del sistema e del regime. Per raggiungere lo scopo basta interpretare la collera e l’ansia di giustizia del meridione e si avrà così una grande forza di base da contrapporre a quella legale dei nostri avversari».

Per finire, Astrolabio, quindicinale diretto da Ferruccio Parri, nell’attaccare Franco Restivo, ministro dell’Interno durante tutte le Rivolte, sosteneva che «anche L’Aquila riporta in luce l’iniziativa fascista che ha fatto le sue prove a Reggio come forza conduttrice delle sommosse, è il problema della lotta contro il neo fascismo che torna in discussione».

Reggio Calabria, la più lunga Rivolta urbana nella storia della nostra Repubblica, fu la Fiume del secondo dopoguerra, simile negli slogan e nell’attenzione di tutte le forze politiche, ma diverse nel contesto e nei protagonisti. Una ribellione da non dimenticare per tanti motivi, non fosse altro perché per la prima volta in Italia e nell’Europa libera scesero in strada i carri armati, come in Cecoslovacchia, per liberare Reggio dalle barricate, per far rientrare lo Stato nella autoproclamata Repubblica di Sbarre (il quartiere che diventa il fulcro della Rivolta). Fondamentale citare l’analisi storica di Marcello Veneziani: «La rivolta reggina ebbe qualche somiglianza con le insorgenze popolari del sud nel 1799 o con i Vespri Siciliani, per andare ancor più indietro nel tempo. E Ciccio Franco, il suo leader più famoso, evocò a taluni il fantasma napoletano di Masaniello. La ribellione di Reggio dimostrò come il trasferimento di poteri e competenze a livello locale inneschi facilmente guerre locali e conflitti per l’egemonia territoriale. Era il tempo in cui la secessione rischiava di fiorire al sud. Seguì poi la rivolta dell’Aquila ma diverso fu il peso, le vittime e la durata di quella sommossa, nata anch’essa dalla crisi di rigetto delle Regioni e da un conflitto di supremazie cittadine».

Tra la guerra dei braccianti e i moti in Abruzzo, nelle rispettive peculiarità, c’è un filo rosso che le attraversa rappresentando l’eterno malessere del Meridione e testimoniando le prime crepe del regionalismo, che non fu certo la risposta ai gravi problemi sociali ed economici, in anni in cui il divario tra Nord e Sud si allargava e l’emigrazione era spesso l’unica alternativa alla rassegnazione.

C’è una Battipaglia che narra un delicato momento di passaggio da società contadina a società industriale, ma con una lunga crisi delle tradizionali industrie (conserve, tabacchi e zucchero) e aziende dotate di calcolatrici elettroniche accanto ad aziende a conduzione primitiva. In questo quadro di tensioni popolari, di forte contrapposizione coni partiti maggioritari, a fronte di una destra missina che tentenna (solo per Reggio, dopo una esitazione iniziale, il partito si schierò ufficialmente con la Rivolta) troviamo quella extraparlamentare che è presente, attivamente, da Avola a Reggio Calabria.

La rivolta di Reggio Calabria nell’archivio de l’Unità

Stefano Delle Chiaie afferma che i militanti di Avanguardia Nazionale erano sul posto «a viso scoperto e riconoscibili, senza provocazioni strumentali, ma sinceramente partecipi delle rivendicazioni popolari. Solo in seguito, quando l’antifascismo militante sarebbe diventato d’obbligo, la sinistra avrebbe denunciato la nostra presenza nelle piazze in rivolta come una forma di provocazione. L’obiettivo, ipocrita, era nascondere che ad Avola, Battipaglia, a Caserta, come a Valle Giulia, aveva lottato fianco a fianco con noi fascisti». Tra quei militanti, presenti a Reggio sin dall’inizio, c’era Adriano Tilgher che in questo dossier viene intervistato da Adalberto Baldoni sul ruolo svolto da Avanguardia Nazionale.

Va sottolineato come i fatti di Avola siano tra quelli che l’estrema sinistra rivendichi maggiormente rispetto agli altri, proprio perché nelle altre ribellioni la presenza della destra era più forte e numerosa. Il leader di Avanguardia Nazionale cita un fatto che non sempre viene inserito tra le ribellioni di quegli anni, la cosiddetta ‘Rivolta del Pallone’: la Casertana era stata promossa sul campo in serie B ma a settembre fu retrocessa d’ufficio per illecito sportivo con una sentenza dell’Ufficio Inchieste dopo una denuncia del Presidente del Taranto (secondo in classifica). Un corteo all’inizio pacifico, anche in questo caso convocato dalla Giunta comunale, degenera in incidenti e devastazioni (oltre un miliardo di danni e 90 arresti). Rispetto alla presenza della destra, extraparlamentare e non, è più noto l’arrivo da Napoli di militanti delle formazioni della sinistra più radicale, i cosiddetti ‘filocinesi’.

Le Rivolte in Meridione andavano ricordate, messe tutte insieme in una rivista di storia perché sono accadute per davvero, quasi dimenticate anche dagli stessi cittadini delle realtà dove avvennero, anche se non è passato nemmeno mezzo secolo. Vanno raccontate anche perché dopo di esse «il Sud smise di insorgere a livello popolare, preferì defilarsi nei propri comodi, nel clientelismo e nel malgoverno, o consegnarsi in alcune zone alla malavita organizzata». Quel “Boia chi molla”, usato già ai tempi della prima guerra mondiale dagli Arditi, non scevro di violenza, fu l’ultimo grido del Sud prima di sprofondare in quel coma da cui non si è più ripreso.

Alessandro Amorese

Alessandro Amorese su Barbadillo.it

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